L’Occidente, spaesato e senza punti di riferimento, si muove nel perimetro del mausoleo eretto alla propria indistruttubile assolutezza. Recinto estetizzante per esistenze senza filo, intente a dar significato allo spazio vuoto, in un ambiente in cui l’opera d’arte è creazione che assume, di tempo in tempo, le sembianze – come moderno mulino donchisciottesco – di una cattedrale, di Londra, di New York, dell’universo.
In questo non luogo si ambienta “England” di Tim Crouch, drammaturgo inglese del momento che vanta repliche ormai in tutto il mondo, e che proprio in questo periodo sta lavorando a nuove messe in scena con la Royal Court.
“England” ha debuttato l’anno scorso a Napoli per la regia di Carlo Cerciello e nell’adattatamento di Luca Scarlini, fra gli animatori del Napoli Teatro Festival Italia. Fin dal debutto, questo dramma che gioca sulla sostituzione dei contenuti si è dimostrato uno degli spettacoli più amati e coinvolgenti del festival partenopeo. E non a torto.
La storia è quella di un collezionista e mercante d’arte (interpretato da Paolo Coletta) e della sua compagna (Mercedes Martini), la cui vita procede fra inframmezzati singulti d’estetica e piccole noie da vuoto quotidiano, in un andirivieni planetario rinchiuso nello spazio museale dell’esistenza.
Crouch ha voluto che lo sfondo, l’ambiente, fosse proprio quello di un museo. Così, a Napoli, è stato prima ospitato al Madre, il suggestivo museo d’arte contemporanea nascosto nelle viuzze popolari della città, per poi migrare in altre gallerie d’arte; successivamente è arrivato a Milano nell’incredibile spazio della Fondazione Pomodoro.
In un simile allestimento l’arte non può che diventare una co-protagonista, tanto da essere espressamente richiamata dagli attori, che interagiscono con le opere esposte: un’arte che dovrebbe essere di tutti e che invece, come sottolinea il testo, spesso diventa privilegio elitario, alchemico neopitagorismo della società evoluta che in essa si rifugia, alimentandola con logiche di mercato. Se non fosse che la macchina umana, a tratti, è più fragile dell’opera d’arte stessa. Ed è proprio questa fragilità ad esser rivelata nella seconda parte della drammaturgia, quando si scopre che l’agiata coppia ha fatto ricorso al traffico di organi con un paese in via di sviluppo per salvare la vita della ragazza.
Enigmatica presenza, quella della morte, che aleggia personificata nello spazio del museo e fra il pubblico che delimita l’ambiente, lo abita, ne sancisce una confusa morfologia, come un gruppo in visita al museo. E se la prima parte si svolge in piedi, la seconda vede il pubblico seduto e recitazione frontale, nella necessità di una raccolta concentrazione verso gli eventi.
L’ossimoro starà nell’incontro con la vedova del “donatore”, confronto molto meno enigmatico, in apparenza, di quello al quale i due sono abituati con l’oggetto d’arte, ma assai più spietato e senza via d’uscita. Come un nero di Rothko, come una decollazione di Artemisia, o una classe morta a-là-Kantor. Non c’è più fuga, nessuna scusa, nessun giro di parole possibile.
Abbiamo incontrato gli interpreti dopo lo spettacolo alla Fondazione Pomodoro, nelle repliche di dicembre ospitate nella stagione di Teatro i. Nel necessario interrogarsi sul limite fra agio e disagio, cui la drammaturgia costringe, si svolgono le considerazioni dei giovani interpreti di una fra le prime produzioni nonché tra gli spettacoli di maggior successo del Napoli Teatro Festival Italia al suo debutto. In attesa di vedere il programma dell’edizione 2009, in via di definizione proprio in questo periodo.
Riprese: Vito Tricarico