«Quello che, in origine, si considerava un disegno unitario di vita politica e sociale [la Costituzione, n.d.r.], ha iniziato a essere scomposto concettualmente in parti diverse e le si è trattate, ora questa ora quella, come materia che potesse essere ritrattabile (in tutti i sensi) a seconda delle esigenze del momento: secondo, diciamo così, opportunità e, qualche volta, opportunismo. È caduto insomma quello che si disse essere stato fino ad allora il “tabù costituzionale”, l’intoccabilità della Costituzione» (G. Zagrebelsky, “Costituzione, i suoi primi 60 anni”, dicorso del 23 aprile 2008).
Spesso sono proprio le frasi più estemporanee a dischiudere nella nostra immaginazione le metafore più appropriate. È il caso della citazione pronunciata qualche anno fa dal celebre giurista piemontese Gustavo Zagrebelsky, che si spera non ne abbia (troppo) a male per questo strumentale repêchage. Perché in effetti tre compagnie ospitate in questi giorni dal Festival delle Colline Torinesi sembrano aver meditato – forse inconsapevolmente – questo passo, proponendo al pubblico delle opere, almeno negli intenti, particolarmente scomposte, imprevedibili e anti-convenzionali.
Iniziamo da “Roberta va sulla luna” di Roberta Bosetti e Renato Cuocolo, con un ritorno alle Colline e un rimando al precedente “Roberta torna a casa”.
Ad acuire la promessa di imprevedibilità ci si mette il sottotitolo: “How to explain theatre to a living dog”. Come spiegare il teatro a un cane vivo («E non ci siamo proprio riusciti del tutto!», ammette Cuocolo divertito), frase che suona più come un interrogativo che non come un’asserzione e che ricalca il bislacco tentativo dell’artista tedesco Joseph Beuys di raccontare un dipinto a una lepre morta. Nel cast è infatti presente anche il fido collega a quattro zampe Nuvola, che oltre ad allietare il pubblico con le sue allegre passeggiate per la sala Pasolini del Teatro Gobetti, ha anche uno spazio nella drammaturgia: è infatti l’oggetto di alcuni tentativi di Roberta («sempre fallimentari», commenta lei) di imporsi con autorità, ma anche l’interlocutore, l’amico, il confidente a cui svelare frammenti di verità. Il miglior sostituto del Prozac.
La performance, in prima assoluta, si configura come la quattordicesima tappa del bio-scenico Interior Sites Project, nato a Melbourne nel lontano ’88, quando IRAA Theatre aveva appena dieci anni. Ne è scaturito, peraltro, anche un bel libro-intervista, curato da Laura Bevione e recentemente pubblicato da Titivillus, con una prefazione di Sergio Ariotti.
Ma perché la luna? «Da qualche mese ci gira in testa l’idea della luna. Un viaggio sulla luna, o dalla luna, questo non è ancora ben chiaro. Ci siamo forse innamorati del titolo: “Roberta va sulla luna”. Oppure, ed è più probabile, qualcosa sulla terra non ci convince».
Lo spazio scenico ha molto di lunare, di trasognato, di estatico: al posto del consueto ambiente domestico, questa volta la coppia ha optato per un lungo corridoio semibuio alle cui estremità sono disposte due poltroncine di stoffa rossa; ai lati di ciascuna vi è un’asta da microfono, che amplifica la voce di Roberta. Di fronte all’eroina eponima è seduto un Roberto in veste di orso bianco (i costumi sono di Lapi Lou). Il pubblico – al quale si preferisce qui “ammiccare” intellettualmente piuttosto che includerlo fisicamente – è disposto sui lati più lunghi di questa galleria rettangolare, su file parallele.
Tutto – dal suono emesso dal cellulare della Bosetti nei primi minuti di spettacolo, fino all’arrivederci finale, che rimanda “ad una prossima volta” – tutto, appunto, è pretesto per una più ampia e a tratti malinconica riflessione sul teatro e sull’esistenza, dimensioni nelle quali realtà e finzione si contaminano continuamente. Nulla può essere stabilito una volta per tutte: non ci sono norme, vincoli o Costituzioni che tengano. Nuvola, d’altronde, ogni sera vagherà in modo diverso.
«Si tratta, prima di decollare per lontani emisferi, di notare davvero ciò che i nostri occhi hanno già visto». E il decollo dei due aviatori italo-austrialiani, con questo nuovo esperimento performativo, si può dire egregiamente compiuto, complice la voce suadente di Bosetti, che non permette agli spettatori di distrarsi.
Altro viaggio per “Lingua madre/Mameloschn” (coprodotto dal Teatro Stabile di Genova con il supporto del Goethe-Institut), uno spettacolo targato Fabulamundi, la rete che unisce teatri, festival e organizzazioni culturali in Italia, Francia, Germania, Spagna e Romania allo scopo di promuovere e sostenere la drammaturgia contemporanea in Europa.
“Madre” della pièce è Sasha Marianna Salzmann, autrice di lingua tedesca, poco più che trentenne, nata nella Volgograd sovietica e formatasi tra Berlino e Istanbul. L’incarnazione della straniera, della migrante. La regia è invece di Paola Rota, per la sua prima volta al Festival delle Colline.
Gli imperativi che aleggiano sul palcoscenico non sono tanto quelli della Torah o dell’ebraismo (pure presente sullo sfondo), ma piuttosto la messa in discussione e la ritrattabilità della “legge di sangue”. In altri termini, un modo diverso di essere e sentirsi “famiglia”. E in ciò l’idioma non può che avere un ruolo di primo piano, fosse anche solo “per capire una barzelletta”. “Mameloschn” era infatti, significativamente, il termine scelto dalle comunità ebraiche degli shtetl dell’Europa centro-orientale per riferirsi alla propria lingua d’uso, il popolare yiddish, discendente dall’alto tedesco medio, esportato – anche e soprattutto grazie al vagabondare “artistico” degli Adler e dei Thomashefsky, di Molly Picon, David Kessler, Maurice Swhartz e tanti altri – nel Lower East Side newyorkese, meta del personale pellegrinaggio/fuga di Rahel (interpretata dalla giovane Maria Roveran). D’altronde, «come parla al telefono un ebreo intelligente con uno stupido? Dall’America verso l’Europa».
Lo spettacolo si apre con una ilare captatio benevolentiae a mo’ di prologo: nonna (Elena Callegari) e nipote, sulla ribalta, cercano di ingraziarsi il pubblico. Irrompe ad un certo punto anche la madre Clara (Francesca Cutolo), figlia di Lin, che fin da subito manifesta il proprio disappunto. La vicenda ha così inizio.
Scritte su lavagne, epistole private lette ad alta voce da un io narrante esterno e momenti di intreccio scenico si intersecano sul palco per circa un’ora e un quarto. Nonostante le interferenze passato-presente-futuro, un certo “tracciato lineare” si mantiene nell’opera.
La scenografia è sintetica ma molto efficace: tra gli oggetti scenici dominano il grande baule contenente i ricordi e gli effetti personali della giovane Rahel e la poltrona posta al centro della scena, sulla quale la nonna, in giacchetta di acetato verde, rimane per quasi l’intero svolgimento del dramma.
Lin è una donna a cui il pubblico si affeziona subito, ma che – nel suo essere – è profondamente contraddittoria: ci appare come una “nonna per amica”, ma è stata una madre discutibile, sempre troppo impegnata con il Partito comunista della DDR per stare con la figlia (la quale non manca di rinfacciarglielo); sembra una donna aperta, fan dell’amore libero, ma poi non riesce a digerire troppo facilmente l’omosessualità della nipote. Una nipote che Maria Roveran interpreta in chiave profondamente attuale, con quella svogliatezza cinica che nasconde in realtà una disperata ricerca di affetto tipica delle giovani generazioni, servendosi di un timbro vocale e di una gestualità peculiari. Infine, la madre: Francesca Cutolo, in questa replica, è la punta di diamante. Sincera, appassionata, vera: è colei che “ripudia” la tradizione assimilandosi completamente; ma è anche il personaggio dall’identità più screziata, che attraversa una vera e propria maturazione sulla scena: ex-bambina che seguiva la madre ai “raduni rossi” pur di vederla e di cantare per lei, ex-studentessa a Parigi, ex-vittima delle molestie del capo, ex-di un medico, Clara è la donna che vive nella perenne angoscia (l’altro suo figlio è lontano, dimenticato: di lui ci restano solo delle lettere), un’ansia che sfoga ora in acidità – specie nei confronti della madre (i siparietti della lettura del giornale, puntualmente interrotta dalle domande di Lin, sono gustosissimi) – ora in dolcezza.
È una famiglia in cui le generazioni si incontrano e si scontrano, fino alla scomposizione, fino allo scardinamento finale, quando viene a mancare l’anziana capostipite.
Le attrici sono molto intense, ciascuna nel proprio abito. Il loro «dialogo privato», tuttavia, non si traduce mai veramente in dialogo «politico» in senso stretto (“etico” sarebbe la parola giusta) e l’atteso «scavo nella memoria» – cui forse dovrebbero contribuire i ricordi e le frasi della reduce dai campi, ora comunista disillusa, Lin – ci appaiono artificiosi, esteriori. Il che forse è un bene, perché impedisce di scadere nella più compassata “olografia ebraica”.
Si attende dunque la ripresa dello spettacolo all’interno del cartellone del Teatro Stabile di Torino a febbraio prossimo per coglierne qualche nuova sfumatura.
E da “sfumature” parte anche il collettivo tedesco She She Pop chiedendosi: «Cosa significa sesso? Cosa definisce una donna? Cosa un uomo?». Ma soprattutto, che cosa è lecito? Prova a spiegarcelo, sul palco del teatro Astra, l’attesissimo “50 Grades of Shame”, una serata di studi sul corpo e sulla sua scomposizione, sul sesso e sulla sua alterazione, sui tabù e sulla nostra alienazione.
Il ricchissimo ensable teutonico – protetto dal fosco reticolato progettato da Sandra Fox e intabarrato nei costumi di Lea Søvsø – riunisce membri storici e giovani promesse, proponendo al pubblico di intervenuti alcune lezioni sulla sessualità, dalla consapevolezza della vergogna, fino alla macabra danza finale, passando per diversi step intermedi: la masturbazione, i rapporti di genere, la sproporzione dominatore-schiavo, la morte. Le leggi anatomiche convenzionali sono confutate.
Le rotture metateatrali e l’intellettualismo à la Brecht sono due componenti essenziali del teatro tedesco, che She She Pop sembra accogliere senza remore: il gruppo si presenta educatamente al pubblico, dopodiché ciascun attore, a turno, indossa la veste accademica (rigorosamente nera) e sale sul pulpito (sempre nero) per delineare una tappa di questo “scandaloso” Bildungsroman.
Nel frattempo gli altri performer, più o meno discinti, si dimenano di fronte ad una serie di telecamere, che ne proiettano e scompongono le immagini sugli schermi a figura intera di cui la scena è sovraccarica. Lo straniamento e la duplicazione, cui contribuiscono anche i sopratitoli, sono massimi. I corpi vengono riassemblati progressivamente, producendo un forte stridore cognitivo con gli assunti di base della cultura sessuale: il femminile può essere provvisto di pene, il maschile di seno.
Il clima è tra il voyeristico e il documentario, tra il lubrico e l’autoptico. Nello spettacolo trovano poi posto diverse sequenze di improvvisazione, che mettono in difficoltà anche la bravissima traduttrice Eloisa Perone, che cerca di seguire il flusso spesso sconnesso delle parole degli attori.
Le opere a cui questa geniale creazione collettiva si ispira sono il best seller “Cinquanta sfumature” di E. L. James, con la nota relazione dell’ingenua Anastasia e del violento Mr. Grey (di cui si offre più che altro una ridanciana parodia), e frammenti del “Risveglio di primavera”, capolavoro di Frank Wedekind, tanto osannato da Freud e Lacan, composto nel 1891, ma messo in scena solo quindici anni più tardi, per la regia di Max Reinhardt, suscitando scandali e clamori per via delle tematiche trattate: in una Germania ottocentesca da fiaba Grimm, la neo-quattordicenne Wendla diventa donna ed è costretta ad indossare una gonna più lunga; nel frattempo, due studenti, Moritz e Melchior, discorrono su temi come la procreazione e il coito.
Le Colline 2017, superato ormai il giro di boa, hanno ancora in serbo molte sorprese per quest’ultima settimana di festival, a cominciare stasera da “Acqua di Colonia” di Daniele Timpano ed Elvira Frosini, e “Ifigenia in Cardiff” di Teatro di Dioniso, con Roberta Caronia che – diretta da Valter Malosti – mette in scena (ancora stasera e domani alle 19,30 sul palco di Casa del Teatro Ragazzi e Giovani) la storia della sboccata Effie di Splott.
Immancabile poi l’appuntamento con Saverio La Ruina e il suo “Masculu e fiammina”, foscoliano outing sulla tomba materna. E ancora “Corale numero uno” di Elena Bucci, sulla “Bambola” (Papusza) Bronislawa Wajs, poetessa e cantante polacca di etnia rom, o il ritorno dei fratelli De Serio con “Stanze/ Qolalka”.
A chiudere il festival, su note noir, “The Black’s Tales Tour” di Licia Lanera, un orrorifico viaggio “à rebours” nella letteratura, raggiungendo il fulcro ancestrale della fiaba, qui nella versione del danese Andersen. Accanto a loro, il quartetto Conti-Ferraù-Di Giacomo-Mocchi, diretto da Claudio Autelli ne “L’inquilino”, e Lina Majdalaine, protagonista di “So Little Time”, testo e regia di Rabih Mroué, artista visuale, regista e attore nato a Beirut.
Insomma, non potete mancare: come direbbe Zagrebelsky, non è un’“opportunità”, è un’“esigenza”!
ROBERTA VA SULLA LUNA How to explain theatre to a living dog
di Roberta Bosetti e Renato Cuocolo
regia Roberta Bosetti e Renato Cuocolo
con Roberta Bosetti e Renato Cuocolo
con la partecipazione del cane Nuvola
produzione Cuocolo Bosetti/IRAA Theatre, Teatro di Dioniso, Festival delle Colline Torinesi, Olinda Minalo, ICA (Institute Contemporary Arts) Sydney
durata: 1h
Prima nazionale
LINGUA MADRE MAMELOSCHN
di Sasha Marianna Salzmann
regia Paola Rota
traduzione Alessandra Griffoni
con Elena Callegari, Francesca Cutolo, Maria Roveran
costumi Ursula Patzak
luci Camilla Piccioni
foto Claudia Pajewski
produzione Teatro Stabile di Genova, Festival delle Colline Torinesi, PAV nell’ambito di Fabulamundi. Playwriting Europe
con il supporto dei Goethe-Institut di Roma, Torino e Genova
la traduzione italiana del testo è edita da CuePress
durata: 1h 15′
50 GRADES OF SHAME
i Gundars Abolins, Sebastian Bark, Lilli Biedermann, Knut Berger, Jean Chaize, Anna Drexler, Jonas Maria Droste, Johanna Freiburg, Fanni Halmburger, Walter Hess, Christian Löber, Lisa Lucassen, Fee Aviv Marschall, Mieke Matzke, Ilia Papatheodorou, Florian S
regia She She Pop
ideazione She She Pop
con Gundars Abolins, Sebastian Bark, Lilli Biedermann, Knut Berger, Jean Chaize, Anna Drexler, Jonas Maria Droste, Johanna Freiburg, Fanni Halmburger, Walter Hess, Christian Löber, Lisa Lucassen, Fee Aviv Marschall, Mieke Matzke, Florian Schäfer, Susanne Scholl, Berit Stumpf, Zelal Yesilyurt
video Benjamin Krieg
scene Sandra Fox
costumi Lea Søvsø
musiche Santiago Blaum
consulenza artistica Ruschka Steininger
drammaturgia Tarun Kade
suono Manuel Horstmann.
luci Michael Lentner
tecnici Florian Fischer, Andreas Kröher, Sven Nichterlein
produzione/pr ehrliche arbeit – freelance office for culture
organizzazione tournée Tina Ebert
amministrazione Aminata Oelßner
manager di compagnia Elke Weber
produzione She She Pop e Münchner Kammerspiele
coproduzione HAU Hebbel am Ufer Berlin, Kampnagel Hamburg, FFT Düsseldorf, Künstlerhaus Mousonturm Frankfurt a.M. e Kyoto Experiment
con il supporto di Commissione Cultura e Media del Governo Federale nell’ambito di Alliance of International Production Houses e di Assessorato alla Cultura e all’Europa del Land di Berlin
presentato in collaborazione con Fondazione Piemonte dal Vivo e Goethe-Institut Turin
e con il sostegno di Assessorato alla Cultura e all’Europa del Land di Berlin
versione originale con sottotitoli in italiano
matrice sottotitoli PANTHEA/Anna Kasten
traduzione Eloisa Perone per il Festival delle Colline Torinesi
durata: 1h 45′