Il teatro dell’incontro e della profondità, il teatro degli occhi lucidi e degli amori perduti, il teatro dell’orientalismo e della mistica fatta poesia, il teatro dell’invocazione e dell’epifania, il teatro al passato remoto: la linea 2020 proposta dal Festival Opera Prima è chiara e definita, senza però mai mancare di aprire le porte dei molti spazi della città di Rovigo, coinvolti in questi giorni nelle attività teatrali selezionate da Massimo Munaro, alle sperimentazioni ed ai linguaggi più vari.
Il teatro che arriva qui è senza alcun dubbio un teatro che crede ancora molto nelle possibilità di sé stesso, non senza guardare anche alle ricadute di questo processo nell’ambito sociale.
Lo si pensa sin da quando si scende dal treno, in una città che si sente animarsi fin dal bianco che caratterizza i cartelloni del festival, dalle magliette e le shopper dei volontari e dei molti spettatori – è sempre folto infatti il pubblico agli eventi, spesso in sold out: un segno forte per le necessarie ripartenze di questo periodo.
Nello spazio principe della città, alla Gran Guardia affacciata su una delle piazze, un minuscolo spazio di intimità e di memoria viene ricostruito grazie all’installazione “Terzo tempo” di Momec, una piccola camera del ricordo che mai ci si aspetterebbe di trovare facendo i primi passi, rigorosamente da soli, nel labirinto che ne costituisce l’ingresso, e poi un piccolo tavolo bianco attorniato di piante, a cui sedersi e passare qualche momento con la presenza dell’assenza di qualcuno che non c’è: qualcuno che, per le mille ragioni possibili, non è lì ad occupare l’altra sedia del tavolo in quel giardino da vivere con chi si vorrebbe.
Si riemerge da questi pochi intensissimi minuti per tornare presto al mondo dei passanti, e alle 18 ai Giardini Due Torri si inizia subito con due performance di giovanissimi artisti, Valentina Dal Mas e i sorprendenti Livello 4, che lasciano il segno con “Loop” di Alessandro Sanmartin in molti dei curiosi approdati a Rovigo in cerca di qualche novità per il teatro del dopo Anni Zero: tanto che dedicheremo loro un approfondimento specifico nei prossimi giorni.
Alle 20.15 si aprono invece molto presto le porte del Teatro Studio per l’ultimo lavoro della compagnia Abbondanza/Bertoni. “Hyenas” è infatti un lavoro che desta l’interesse di molti, con le maschere da caproni e Minotauri cui sono costretti i performer durante buona parte dello spettacolo, una sequenza di scelte coreografiche che proprio nel suo carattere strutturale – accanto a luci impeccabili – trova l’elemento più notevole del tutto, giocato com’è su un modo della ripetizione, ironica ed ossessiva allo stesso tempo.
Per la sfaccettatura più politica ed impegnata, la serata di giovedì si conclude invece con il debutto del nuovo lavoro di Farmacia Zoo:è, “Sarajevo, mon amour”. Molto riuscite alcune delle scelte di regia, giocate su una riproduzione video in diretta tra gli attori in scena e lo schermo sul fondo nel quale si rivedono, per portare con la giusta distanza di nuovo, dal vivo, la storia dei perduti Bosko e Admira, i Giulietta e Romeo dei Balcani, caduti durante l’assedio di Sarajevo, che poco prima del termine dello spettacolo si parlano comunicando attraverso un tunnel fatto di copertoni, ed immergendo gli spettatori, con un’unica luce tra le mani di Carola Minincleri Colussi, nel trauma di una vita sotterranea, tragica e nascosta.
Le giornate sempre ricche del festival sono arricchite dagli incontri del prefestival, che ogni mattina interroga gli artisti prima e dopo la presentazione dei loro lavori. Come è stato anche per Sara Bonci e Filippo Mugnai di Cantiere Artaud, che con il piccolo teatrino quasi metafisico – interrotto soltanto da poche ma centratissime parti di parola – di “L’eco della falena” conducono gli spettatori in un’atmosfera assorta che illumina a tratti e fasci di luce una camera dall’estetica primo novecentesca. Qui spiccano in più momenti i calibratissimi movimenti delle mani della Bonci, prima quasi come a creare delle ombre cinesi in presenza, con la luce solo sulle mani, e poi, in un finale che ha non poco di perturbante, quasi da malattia della mente, nella claustrofobia di quella camera chiusa che è in fondo lo spettacolo, la riproduzione maniacale del movimento di chi tesse al telaio o cuce in qualche altro modo, fino agli spasimi ed alla convulsione.
Tra uno spazio, un luogo, un corpo e l’altro non manca quindi il sentire di una tensione forte, che tanto nelle intenzioni quanto nelle riuscite implicazioni, il festival Opera Prima sta in questi giorni riuscendo a regalare a chi è venuto ai confini dell’impero, per cercare qualcosa che sia nuovo per davvero.