Da Verona storie ‘made in Italy’ tra razzismo e precariato. Intervista ad Enrico Castellani

Photo: Marco Caselli Nirmal
Photo: Marco Caselli Nirmal

Parole, simboli, musica, luci e ancora parole.
A ritmo martellante, incalzante, debordante. Da video-clip.

Che i due protagonisti di “Made in Italy”, opera vincitrice del Premio Scenario 2007, giochino sull’estetica del suono e sull’assuefazione alle parole, la dice lunga su come sia diventata, oggi, la comunicazione umana.

Valeria Raimondi ed Enrico Castellani non raccontano una storia ma rappresentano, con quel loro parlato da televisione sempre accesa – sottofondo costante e continuo riferimento alla vita dell’uomo medio – il mezzo che si trasforma in soggetto.

È il ritratto di un’Italia che, se localizzata nel nord-est veneto per il linguaggio di provenienza degli autori, non può non allargarsi ad un onnicomprensivo Bel Paese.
Il ‘made in Italy’, così, diventa un susseguirsi di volgarità, idoli mediatici, frasi fatte, intolleranza e stereotipi. Il tutto imbellettato da giri di menehito, chiacchiere da bar e miti da stadio.

Babilonia Teatri offre uno spettacolo giovane e veloce sia nelle scelte linguistiche che nel registro scenico, capace di generare con cinismo risate acri attraverso quello che la compagnia stessa definisce un teatro “pop-rock-punk”.

In gioco ci sono tutti gli orpelli di questo malandato Paese, sempre più alle prese con modelli rovinosi e fatiscenti.
Il pregio dei giovani Raimondi e Castellani sta nel nominare tutto senza cadere nel già detto. La scelta di non imbastire una storia, insieme all’effetto di straniamento trasmesso al pubblico, permette d’evitare di scivolare nelle trappole della retorica.
Gli attori rimangono portavoci, quasi strumento del disagio interiore. Diventano macchiette brechtiane, stilizzano comportamenti e pensieri con una recitazione distaccata. Offrono risate liberatorie ma anche riflessioni amare, in uno sguardo così rappresentativo ed inglobante da riuscire a ricordarci – in cinquanta minuti che filano via veloci e ritmati – come il peggio che ci circonda sia ormai tanto assimilato in ognuno.

L’allestimento semplice, che accosta al groviglio di parole quello dei tubi luminosi sul fondale, non cela nulla: tutto è visibile sulla scena, in una cruda naturalezza che unisce meccanismi d’automa a piccole schegge di follia da rave party; complici i movimenti di colori accesi e una musica che, a tratti, diventa totalizzante.
Cosa resta da spazzare via con tanto vigore dopo le gioie di festeggiamenti calcistici? Coriandoli verdi-bianchi-rossi o le ceneri di un’Italia dalle icone distrutte?

Ne parliamo con Enrico Castellani, co-protagonista e co-autore, insieme a Valeria Raimondi, di “Made in Italy”.

Avete da poco concluso la tournée di Generazione Scenario, con cui avete portato per l’Italia lo spettacolo. Com’è stato accolto in realtà del sud come Napoli o Trani, forse più lontane dal sentimento di chiusura e dagli atteggiamenti descritti in scena?
Portare “Made in Italy” al sud è stata un’esperienza molto bella. Napoli è stata la città in cui il pubblico più si è divertito nel vederlo: durante un pezzo la gente rideva così tanto che alla fine anche noi, che rimaniamo sempre impassibili, abbiamo fatto una mezza smorfia per non sbottare a ridere. In generale, comunque, la comprensione non è affatto mancata, e il raccontare una realtà apparentemente lontana non si è sentito perché il pubblico riusciva a trasporre le nostre parole con la propria situazione: al sud non è poi così diverso che al nord. A Trani, ad esempio, ci hanno parlato di una desertificazione culturale in cui avvengono le stesse cose.

Torniamo a casa vostra: com’è fare teatro a Verona? Il testo di “Made in Italy” va contro una mentalità ben radicata nel nord-est, resa ancora più evidente nelle ultime elezioni.
Non ci sentiamo sicuramente protetti o coccolati dalla nostra città o dalle istituzioni, con cui non ci sono praticamente rapporti, però è anche il motivo da cui tutto parte: fotografare e raccontare quanto vediamo. Certo, ci piacerebbe riuscire a parlarne di più con la gente, tuttavia quando abbiamo fatto qui da noi “Made in Italysono venute molte persone. Se si ha la tranquillità di stare ad ascoltare, ci si accorge anche del nostro affetto rispetto ad una serie di difetti e problemi che mettiamo in luce: perché, in parte, sono anche nostri, e alcune delle persone di cui parliamo sono magari nostri amici.

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Enrico Castellani (photo: Marco Caselli Nirmal)

Come nasce Babilonia Teatri?
Dall’incontro, attraverso un’associazione, di diverse persone che lavoravano con il teatro seppure in percorsi autonomi. È nata l’idea di uno spettacolo che avrebbe dovuto parlare della guerra in Iraq e si sarebbe dovuto chiamare “Cabaret Babilonia”. Lo spettacolo non ha mai visto la luce, ma è rimasto quel Babilonia da cui poi è nato il nome della compagnia. Il primo progetto realizzato è stato “Panopticon Frankenstein”, spettacolo che tratta di carcere e droga, con cui abbiamo partecipato nel 2006 al Premio Scenario Infanzia, arrivando in finale.

A proposito di carcere, lavorate in quello di Verona: un’esperienza da cui attingete anche per i vostri testi.
Portare avanti da parecchi anni un laboratorio teatrale in carcere ci ha formato molto, non tanto da un punto di vista prettamente teatrale, perché è un carcere circondariale in cui le persone stanno per poco tempo e quindi non c’è l’opportunità di creare percorsi come, ad esempio, nel carcere di Volterra. Ma è stato molto formativo dal punto di vista umano: l’incontro con tante persone ci ha permesso di guardare al mondo con uno sguardo non giudicante, che per noi è diventato fondamentale nel raccontare la realtà all’interno dei nostri spettacoli.
Abbiamo conosciuto mondi che, altrimenti, non avremmo mai scoperto, e ci portiamo dietro una buona dose di cinismo che i detenuti hanno sia sulla vita che sul carcere o anche su noi stessi.

Il vostro linguaggio è fatto di sequenze incalzanti di parole, spesso pronunciate in coro, a formare concetti anche molto duri e sferzanti nei confronti della società. Come nasce questa vostra caratteristica stilistica? Un po’, forse, anche dal vostro dialetto d’origine, stretto e rapido.
Senz’altro questo aspetto c’è: il veneto è una lingua secca che procede con parole troncate. La nostra scelta nasce poi dalla volontà di non interpretare un testo. Riportando pezzi di frasi e discorsi sentiti dire raccogliamo punti di vista. Attraverso una ricerca sull’utilizzo della parola siamo arrivati a questa forma, in cui tutto viene detto in modo abbastanza sincopato. Ciò permette di non interpretare e, secondo noi, di fare arrivare maggiormente la parola.

Ed è una caratteristica che non avete utilizzato solo in “Made in Italy”.
Sì. Questo è il punto a cui siamo arrivati finora nel nostro lavoro. Anche “Underwork”, altro spettacolo che stiamo portando in giro in questo periodo, ha la stessa cifra stilistica.

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Made in Italy (photo: Marco Caselli Nirmal)

Parliamo proprio di “Underwork”. Raccontaci di questo spettacolo sul lavoro precario.
Siamo partiti dal precariato ma lo spettacolo non ha alcuna pretesa di spiegare cosa esso sia o di ipotizzare soluzioni. Cerchiamo di darne una fotografia dal sapore molto ironico. Noi non vediamo, infatti, ragazzi che si strappano i capelli alla ricerca di un lavoro ma, più spesso, ragazzi che bevono aperitivi nei bar e sembrano felici. Come in “Made in Italy” anche qui ci sono momenti di parlato a cui si alternano immagini e musiche. In scena ci sono tre vasche da bagno con tre persone adagiate dentro: se all’inizio sono belli e asciutti il percorso dello spettacolo li porterà, alla fine, ad essere totalmente bagnati e sfatti.

Un nuovo messaggio dai toni sociali sempre ben delineati.
Nei nostri spettacoli lo sfondo sociale è sempre presente ed è un elemento che in noi nasce spontaneo. Il lavoro più grosso è poi quello drammaturgico, ossia capire come raccontare quel qualcosa: trovare un modo per restituire al meglio ciò che vediamo tutti i giorni.

Farete parte della prossima stagione dello Stabile di Torino. Un bel salto. Ve lo aspettavate?

È un obiettivo forse non sperato fino a poco tempo fa, ma che ci sta dando una grossa motivazione e una maggior presa di coscienza del lavoro portato avanti. Saremo a Torino anche per Carta Bianca, nell’ambito del Festival delle Colline: stiamo davvero vivendo un bel momento con questa città!

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