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Danae e le nostre sfide performative. Intervista ad Alessandra De Santis

Fabian Barba A Mary Wigman dance evening|La conferenza stampa di Danae 2014|Alberi di Fabrizio Favale|Atlas Milano

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La conferenza stampa di Danae 2014
Filippo dal Corno, Alessandra de Santis e Attilio Nicoli Cristiani alla conf. stampa di presentazione (photo: Simone Pacini)
Sei appuntamenti per la prima parte della 16^ edizione del Danae Festival, ospitati al Teatro Out Off, al LachesiLab e al Teatro Cucina del Paolo Pini.
Organizzato a Milano dal Teatro delle Moire, chiediamo oggi ad Alessandra De Santis, che insieme ad Attilio Nicoli Cristiani dirige la rassegna, di farci un primo bilancio e nel contempo di affrontare alcune delle problematiche del teatro performativo, non solo in Italia.   

Alessandra, il tuo punto di vista sulla prima parte di Danae.
Il bilancio è più che positivo. Abbiamo fatto, come sempre, delle scelte coraggiose, mettendo in piedi un programma (che si concluderà a novembre) originale, che si discosta da molti altri festival che ultimamente si sono un po’ omologati, tendendo ad ospitare spesso gli stessi artisti.
Abbiamo cominciato con l’artista spagnolo Pere Faura, una sorta di enfant prodige, energetico, intelligente, di un’ironia fuori dall’ordinario. Un artista in grado di realizzare subito una grande empatia con gli spettatori, che infatti hanno mostrato di averlo molto apprezzato, chiamandolo con entusiasmo per gli applausi più e più volte. Insomma è stato un bell’avvio, che in qualche modo ci aspettavamo, ma che non possiamo mai dare per scontato.

Alberi di Fabrizio Favale (photo: Cristina Crippi)
Con il proseguire del programma, abbiamo rilevato una continua crescita numerica del pubblico, anche per gli appuntamenti che ritenevamo più rischiosi: ad esempio la proposta di due progetti dello stesso coreografo, Fabrizio Favale, che non si vedeva a Milano da dieci anni, cioè da quando Danae lo aveva ospitato per la prima volta. Abbiamo creduto che i due spettacoli potessero dare conto di un percorso rigoroso e originale. Con nostra grande soddisfazione abbiamo registrato la sala piena per entrambi i lavori, che è un segno non solo della curiosità e della raffinatezza del pubblico milanese, ma penso anche della fiducia che esso ripone nelle nostre scelte.
Lo stesso possiamo dire della risposta al progetto di Francesca Proia, che da qualche tempo sviluppa il proprio lavoro a partire dagli esiti percettivi che derivano dalla sosta in stati inediti della coscienza. Riteniamo importante aprire il festival a spazi di ricerca, di indagine, a tentativi di condivisione di un sapere che non attinge esattamente dalla pratica teatrale ma che tenta di dialogarvi.
Siamo soddisfatti anche dell’accoglienza tributata ai portoghesi Sofia Dias e Vitor Roriz, per la prima volta in Italia che, pur essendo una giovane formazione, hanno mostrato una sicurezza nei confronti della scena e una sapienza nel costruire alcune sequenze di movimento, realizzate secondo il meccanismo di avanzamento e riavvolgimento cinematografico (back-forward), davvero notevole.

Il progetto più impegnativo è stato “Atlas”, dei portoghesi Anna Borralho e Joao Galante, che ha coinvolto 100 persone. Raccontaci come si è evoluto in questa tappa milanese.
Abbiamo reclutato cento persone, tutte diverse per provenienza e professione, che hanno partecipato a dei laboratori che gli artisti visuali Borralho e Galante hanno tenuto durante la settimana prima della performance.
Il lavoro è una sorta di passaggio in “presenza”, dove ognuno afferma la propria unicità, e rivendica il proprio essere e il proprio agire sociale.
Una delle prime ispirazioni di questo lavoro sono state le parole dell’artista Joseph Beuys: “Siamo tutti degli artisti”, ampliando il campo dell’arte all’intera umanità e introducendo la nozione di struttura sociale.
Personalmente ho potuto assistere a due laboratori in cui le persone hanno cominciato a presentarsi e a rispondere a delle semplici domande come: che lavoro fai?, quali sono le tue aspirazioni e/o sogni?
Devo dire che ascoltare questa variegata umanità raccontarsi è stato molto emozionante. Conoscevo alcune delle persone che hanno deciso di aderire al progetto, ed è stato folgorante ascoltare le loro storie, rendendo evidente di quanto poco si sappia gli uni degli altri e di quanto siano ricche e complesse le vite di ognuno.
Crediamo che in progetti come questo risiedano molte sfide e potenzialità. La prima sfida era quella di riuscire a raccogliere molte persone non professioniste, che prestassero volontariamente il proprio tempo a qualcosa di cui avevano solo una vaga idea. Essere riusciti ad ottenere le adesioni la dice già lunga sul bisogno di confrontarsi con gli altri, sul voler esperire qualcosa in una sorta di comunità, nel bisogno di partecipazione attiva e di affermazione della propria identità e sul bisogno di uscire dai canali virtuali, per incontrare fisicamente l’altro.
L’avere messo in campo le proprie vite, le proprie emozioni, ha fatto sì che tra le persone si creasse subito un’intesa, una solidarietà che ha permesso di realizzare una performance altrettanto potente e emozionante quanto il percorso. Questa intesa, questa complicità ed anche intimità che si è realizzata tra i “performer” ha permesso di avvicinare tutti i partecipanti alla prassi teatrale, di lavorare assieme per un obiettivo comune, di visionare dall’interno i meccanismi di una messa in scena. Oltre a ciò, si sono ovviamente create delle amicizie e delle potenzialità di scambi e progettualità molto concrete.
Crediamo insomma che si sia trattato di un’occasione piuttosto unica per venire in contatto con un’umanità così diversificata, ma che in qualche modo condivideva un bisogno di espressione e di atteggiamento critico ma attivo nei confronti del presente. Un’esperienza da cui tutti sono usciti arricchiti e trasformati.
E’ stata anche una grande occasione di avvicinamento del festival ad un nuovo pubblico, un pubblico, che dopo una simile esperienza, è quasi più fidelizzato di quello che solitamente ci segue. Un pubblico che ci conosce personalmente e che forma una sorta di comunità, con un piccolo vissuto comune. Prova ne è il fatto che la sera di domenica, dopo le due repliche previste al Teatro La Cucina, che con Olinda è stato nostro preziosissimo partner in questa avventura, sorseggiando qualche bicchiere di vino in quella che sembrava una gran festa tra l’allegria del successo e la tristezza della fine, le persone sembravano non volersi più lasciare. Non potevamo finire meglio di così!

Atlas Milano al Teatro La Cucina (photo: Cristina Crippi)
Al centro di diverse performance vi è stata la parola, che in qualche modo nelle arti performative viene spesso negata in favore dell’immagine. Vedi una sua riabilitazione?
Non lo so. Quello che vedo è che sempre di più la danza si avvicina al teatro. Ormai da molti anni ci sono artisti che abbandonano le forme per avventurarsi in qualcosa di meno definito, forse per un bisogno di rompere con strutture rigide e di comunicare anche con le parole, come se a volte il gesto non bastasse, o si volesse vederlo entrare in dialogo o in corto circuito con le parole.
Comunque non penso che il lavoro sulle immagini neghi la parola. Semplicemente non la utilizza, il che è diverso. Forse c’è stato bisogno di non utilizzarla perché la si sentiva svuotata di senso o troppo preziosa per poterla dire “bene” e in modo nuovo. Ma credo che tutti noi ci nutriamo di parole oltre che di immagini.

Com’è andato l’incontro con i direttori artistici dei festival che aderiscono alla rete di Open Latitudes di cui Danae fa parte e che sono convenuti a Milano durante questa edizione?
È andato bene. Gli incontri vanno sempre bene: sono partecipati, democratici e concreti. Noi siamo il festival con maggiori criticità dopo la Grecia, che è un altro Paese partner. Ciononostante, malgrado le difficoltà a reperire le risorse e soprattutto ad avere risposte tempestive per poter programmare a lungo termine, il nostro lavoro, il nostro coraggio, la nostra coerenza e la cura del festival sono stati i motivi per cui ci è stato chiesto dal capofila francese, Latitudes Contemporaines, di prendere parte alla rete.
È stata una conquista che ci incoraggia nel nostro fare, ma che al tempo stesso segna la distanza dalle istituzioni del nostro Paese, che non solo sono avare di gratificazioni, ma talvolta sembrano non conoscere nemmeno esattamente ciò che facciamo e quanto sia preziosa la nostra azione.

Avete progettualità future in questo senso?
Quello che posso già dire circa le decisioni prese è che, per quanto riguarda gli artisti del territorio, a novembre verrà coprodotto dalla rete l’ultimo lavoro di Garten, compagnia che sosteniamo da tempo, diretta da Giorgia Maretta e Andrea Cavallari, e nel 2015 Effetto Larsen di Matteo Lanfranchi.
Stiamo anche trattando per la codiffusione (almeno tre strutture che programmino lo stesso artista) di Francesca Pennini/Collettivo Cinetico e di alcuni artisti stranieri.
Dovremo poi scegliere un progetto da commissionare, su cui stiamo ancora discutendo. Si tratta di un progetto partecipativo che quest’anno è stato identificato in “Atlas” e che tutta la rete si impegna ad ospitare.

In campo performativo, come vedi la situazione italiana? Quali sono i gruppi italiani più stimati all’estero?
All’estero sono conosciuti, oltre ovviamente alla Socìetas Raffaello Sanzio, i Motus. È uno dei pochissimi nomi che sento ripetere spesso. Ma è anche naturale, visto che i Motus sono una tra le poche compagnie che hanno avuto la forza e forse anche una serie di contingenze favorevoli (non ultima l’essere nati in un certo territorio) per poter accedere ai mercati europei ed extra europei. Ultimamente sento anche parlare di Alessandro Sciarroni ma, in generale, quello che ci viene detto, è che c’è una scarsa conoscenza dei nostri artisti e che anzi si avrebbe voglia di conoscerne di più.
Noi è da sempre che indichiamo alle istituzioni l’importanza di sostenere la mobilità degli artisti, poiché questo darebbe una grande spinta alla conoscenza del nostro lavoro all’estero e innescherebbe processi virtuosi, nonché la possibilità di trovare altri coproduttori per i lavori.
Lo abbiamo fatto e lo stiamo facendo anche attraverso Cresco, e chissà mai che un giorno qualcosa si realizzi. Un’altra azione importantissima sarebbe quella di creare delle piattaforme per operatori stranieri, mentre nella maggior parte dei festival la presenza dei programmatori europei è solo millantata. Noi facciamo del nostro meglio attraverso la rete Open Latitudes, con la quale riusciamo a realizzare concretamente uno scambio e a far conoscere alcuni artisti italiani contemporaneamente in diversi Paesi europei, che sono quelli che fanno parte della rete.

Mi pare che nel campo delle arti performative ci sia un ritorno a stilemi che venivano utilizzati negli anni Settanta e Ottanta. Mi confermi questa mia idea?
Penso che le cose tornino sempre. Viviamo nel nostro tempo, ma veniamo da qualcosa che ci ha preceduto e che ci ha formati, volenti o nolenti. Sicuramente si attinge molto a quegli anni, forse perché in quel tempo le performance avevano un altro significato, erano maggiormente di rottura e sembravano incidere di più dal punto di vista politico. Ma questo vale per molti altri ambiti. In quegli anni c’era la sensazione di partecipare, di avere una voce.
Oggi credo che manchi moltissimo tale dimensione, e probabilmente è anche per questo motivo che si attinge o talvolta si omaggiano i performer di quegli anni. A volte credo anche che forse, da parte di alcuni artisti, ci sia un po’ di ignoranza rispetto a ciò che c’è stato prima, e inconsapevolmente si riproduca qualcosa di già visto, ma smarrendone il senso e la forza.

Fabian Barba arriverà a novembre con A Mary Wigman dance evening
Quali saranno gli spettacoli più interessanti di novembre, per la seconda parte di Danae?
Tra gli artisti che stiamo cercando di portare al festival c’è il lavoro del provocatorio e radicale coreografo brasiliano Marcelo Evelin con il suo “Matadouro”.
“Brasile ignoto” (Os sertòes, del 1902), del romanziere brasiliano Euclides da Cunha, è considerata una delle più profonde ed attente analisi della guerra civile brasiliana del XIX secolo. Questo racconto descrive minuziosamente la spedizione contro la città di Canudos, roccaforte dei separatisti della guerra civile brasiliana.
In “Matadouro” otto danzatori corrono in cerchio attorno al palco per una quarantina di minuti, senza molte variazioni, sfidando lo sfinimento. Sullo sfondo risuonano le note del Quintetto per archi in do maggiore di Schubert. Corrono in una nudità integrale e sobria che, se diventa un segno forte del lavoro, opera in modo da non avere nulla a che fare con connotazioni sessuali. La condizione di nudità sotto la luce cruda appare piuttosto come la tenuta appropriata al genere di combattimento che si svolgerà. L’energia di questo pezzo riconduce anche ad una metafora della fatica della danza, d’un lavoro che si effettua nell’ostinazione di una spesa, di un consumo per conseguire il proprio obiettivo.
Un altro artista straniero che ospiteremo è l’ecuadoriano Fabian Barba con il suo lavoro “A Mary Wigman dance evening”, col quale rende omaggio alla famosa danzatrice degli anni ’30, riproponendo alcune sue danze in parte studiate a partire da ritrovamenti video e in parte sulla base di altre documentazioni e memorie di corpi che hanno lavorato accanto all’artista berlinese.

E gli italiani?
Avremo Collettivo Cinetico, che fa capo a Francesca Pennini, che presenterà <age> (progetto che si era attualmente concluso, ma che la coreografa ha rimesso in piedi ex novo per Danae, con un nuovo gruppo di adolescenti), una performance di straordinario impatto. Vincitore del Progetto Speciale Performance 2012, <age> è un arguto omaggio a John Cage. Il titolo, se da un lato rende omaggio al compositore statunitense, dall’altro è anche un preciso riferimento all’età dei performer (tutti tra i 16 e i 18 anni, e tutti alla loro prima esperienza di palcoscenico).
Con gesti straniati, volti inespressivi, sguardi assenti, questi straordinari giovanissimi performer danno vita ad una bizzarra tavolozza di tipologie umane, a surreali schemi di comportamento, in un ironico svelamento che diventa una toccante testimonianza generazionale.
Oltre alla Pennini, ospiteremo l’ultima produzione di Garten, la giovane compagnia che Danae sostiene da alcuni anni. Con “I’m here I have a gun”, Garten indaga il concetto di visione della “catastrofe”. Protagonista è un bambino in un teatro fatto di oggetti e materia, per disegnare una nuova realtà, esterna o interna, un mondo reale o uno stato d’animo, fatto di suoni lontani, orizzonti di cenere e luci evanescenti.
Per ora sono questi i nomi su cui stiamo puntando, ma non escludo che possiamo aprirci ad altri progetti, se le condizioni lo permetteranno…
 

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