La poetica autunnale di Danae. A Milano tra buio, calore e trasformazioni

ErnestoTomasini e Camilla Barbarito (photo: Michela Di Savino)|Milena Costanzo (photo: Michela Di Savino)|Tabea Martin (photo: Michela Di Savino)
ErnestoTomasini e Camilla Barbarito (photo: Michela Di Savino)|Milena Costanzo (photo: Michela Di Savino)|Tabea Martin (photo: Michela Di Savino)

Danae, il festival milanese giunto quest’anno alla XIX edizione, esprime una poetica autunnale che alterna suggestioni come il freddo, il buio e il decadente a moti di tenerezza, calore e luminosità.
La rassegna orchestrata da Alessandra De Santis e Attilio Nicoli Cristiani ha intercettato nell’arco di quasi un ventennio un pubblico di fedelissimi sempre più nutrito, mentre attende ancora il pieno riconoscimento di critica e stampa.

Filo conduttore di questa edizione del festival è un linguaggio chiaro, epurato da eccessi ermetici, sostenuto da una compostezza formale ricercata, modernamente classica, accompagnata da un senso ilare, a tratti malinconico, mai desolato del vivere.
Danae esprime il fluire del tempo come simbolo dell’eterna mutevolezza delle cose e della vita, come occasione di rinascita e ridefinizione. Ecco perché un tema ricorrente è quello delle “Metamorfosi”.
Lo troviamo sia in Città di Ebla, che ha riproposto un lavoro del 2008 cresciuto nel tempo, ispirato a uno dei più celebri romanzi di Kafka, di cui parleremo più nello specifico nei prossimi giorni; sia in Lenz, che ha riproposto il mito ovidiano di Dafne e Apollo.
Federico Pititto trasfigura in immagini il mito di Dafne. A interpretarlo, la performer Valentina Barbarini, con una fluente parrucca bionda, il viso incipriato di bianco su cui spicca un acceso rossetto rosso. C’è la sensualità acerba dell’adolescenza nel candore eccessivo del viso, che convive con la carnalità e la passionalità del corpo e del vestiario. Una musica conturbante avvolge la sala e avvia la metamorfosi. La performance è raffinata e rigorosa nella ricerca estetica e nell’indagine concettuale. Assente, invece, il pathos della narrazione. L’installazione scenica, realizzata da Federica Maria Maestri, è scarna, essenziale, asettica, in uno spazio spoglio, inondato del bianco della scenografia e della luce.

Eclettica e proteiforme è anche la danza dello svizzero Marco Berrettini, che ha dato in apertura l’impronta al festival con “iFeel4”. Questo spettacolo di performance lega in un tutto armonico danza, coreografia e musica (eseguita al pianoforte dal vivo da Samuel Pajiand). Canto e movimento assumono la forma di tre candide bimbe, che attraversano il pubblico disposto sul palco in circle-time intorno agli attori. Assistiamo al rito collettivo del tempo come forza che corrode e distrugge il corpo e l’anima dell’uomo, e s’insinua nei segni premonitori dell’autunno della vita. La coralità esorcizza il deserto esistenziale. Il movimento incorporeo di Berrettini, il gesto catatonico sotto il fluire degli eventi e il rovescio degli elementi, è una sorta di karma ascetico.
Quello di Berrettini è un esperimento di sufi-disco-dance, un leit-motiv flessuoso di richiami ipnotici che dilata suono, tempo e spazio. Quanto maggiore è la complessità compositiva, melodica, armonica e stilistica della musica, tanto più si fa compulsiva e insistente la danza, che ci sbalza in una dimensione irreale dove è possibile l’incontro con il trascendente.

Decisamente più prosaico il teatro-canzone di “Beato chi ci crede”, incontro in prima assoluta tra Camilla Barbarito ed Ernesto Tomasini.
Al centro dello spettacolo musicale di “rivista astrattista esibizionista” un rapporto di coppia normalmente coesa, normalmente scoppiata. Lampi d’umorismo noir attraversano il concerto, illuminato dalla voce polimorfa di due artisti dalle doti canore eccezionali. I testi della Barbarito sono sempre deliranti, politically incorrect, paradossali, ricchi di bisticci semantici. Sono venati di un sarcasmo che esorcizza ogni sentimentalismo di maniera. Tomasini è invece una sorta di mago Houdini della voce, un illusionista capace di cantare in uno stesso brano come Pavarotti, Farinelli e Callas. Questo Arturo Brachetti delle corde vocali volteggia tra note e vocalizzi come Jury Chechi in mezzo agli anelli. Ne nasce uno spettacolo a tratti esilarante. Almeno tre pezzi meriterebbero un palcoscenico televisivo, nel solco della tradizione migliore del nostro varietà.

Nell’ambito della Trilogia della Ragione che ha già indagato personaggi tormentati come Anne Sexton ed Emily Dickinson, ecco un nuovo studio di Milena Costanzo intitolato “Che io possa sparire”. Stavolta la figura considerata è quella di Simone Weil, di cui sono citati frammenti testuali che provano a illuminare una drammaturgia a lampi e scatti, avente al centro il teatro, l’attore, i finanziamenti troppo scarni per contenuti non meramente commerciali. L’attrice si diverte a scuotere il pubblico. Fa un uso evocativo delle immagini, naturalistiche o metropolitane, poetiche, sfavillanti di luci e colori, eppure intrise di solitudine.

Milena Costanzo (photo: Michela Di Savino)
Milena Costanzo (photo: Michela Di Savino)

Divertente e leggero “Pink for girls & blue for boys”, della coreografia svizzera Tabea Martin. Che con oggetti d’uso comune e quattro performer in scena nei panni di tipi da spiaggia, riflette in modo elementare sugli stereotipi dell’identità di genere. In scena vediamo rappresentata in maniera variegata e spassosa la dialettica tra uomini e donne, e tutta la gamma d’intrecci che rientra nella tematica gender.
A veder lo spettacolo viene in mente una battuta di Troisi: “Io credo che, in particolare, un uomo e una donna siano le persone meno adatte a sposarsi tra di loro”. Il lavoro, che suscita ilarità e simpatia soprattutto tra i bambini, è interessante quando agisce sul terreno della coreografia, diventa prevedibile e ridondante quando fa uso della parola.

Tabea Martin (photo: Michela Di Savino)
Tabea Martin (photo: Michela Di Savino)

Da domani, martedì 7, fino a domenica 12 novembre ultima settimana di Danae. Si inizia a DidStudio domani con Ginevra Panzetti ed Enrico Ticconi che presentano “Le Jardin”, che li vede autori e performer in un giardino immaginario archetipo del piacere e del diletto.
Giovedì 9 novembre gli appuntamenti sono tre. Nel primo Francesca Foscarini (Premio Equilibrio 2013 come migliore interprete) in “Grandmother” si tuffa nel passato e intreccia i ricordi al presente. Rievoca la figura di sua nonna utilizzando il corpo non solo come strumento fisico, ma anche come luogo d’incubazione psicologica ed emotiva.
È poi la volta del ritorno a Danae di Silvia Gribaudi nell’ironico “A corpo libero”, per esplorare i tempi e i modi della femminilità attraverso i linguaggi della coreografia e della danza. La serata si conclude con il dj set di Fabio Bonelli.

Venerdì 10 novembre e sabato 11 novembre sarà la volta del coreografo greco-svizzero Ioannis Mandafounis con “One One One”, relazione danzata tra artista e pubblico. Ancora Francesca Foscarini, stavolta accompagnata da Andrea Costanzo Martini, sarà di scena venerdì con “Vocazione all’asimmetria”, mentre lo stesso Martini rivela il proprio stile eccentrico in “What Happened in Torino”.
Sabato 11 novembre ore 15 e domenica 12 novembre ore 11.30 l’arrivo di Rudi van der Merwe e Béatrice Graf, per la prima volta in Italia con “Trophée”, una performance di danza per spazi aperti che si tiene al Parco Nord di Milano.
Sempre sabato, a Zona K, il ritorno alla danza di Francesco Michele Laterza con “Acquafuocofuochissimo”, riflessione dalle molte sfaccettature sull’identità maschile. Una raccolta di gesti, discorsi e memorie, per una scrittura che deborda verso il surreale.

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