Chiedi a un turista che cos’è Milano. Ti dirà che è il simbolo di battaglie civili e fermenti culturali: la metropoli frenetica, la città della moda e della Borsa, la capitale dell’economia e della finanza, madre di mille eventi e mille movimenti.
Ma Milano è un labirinto, è troppo grande per conoscerla tutta. È una galassia, una nebulosa. Ogni milanese quando pensa a Milano pensa a casa sua. E intanto ignora il quartiere accanto, dove forse non è mai stato perché è periferia. Però non penserebbe mai di dire che egli stesso abita in periferia. Ognuno vive al centro della propria vita, e la periferia è sempre quella degli altri.
Fiore all’occhiello della prima settimana della XX edizione di Danae Festival, in collaborazione con Zona K, è la performance itinerante “L’uomo che cammina” di Dom-. Questo format artistico nato dal sodalizio tra Leonardo Delogu e Valerio Sirna, s’ispira all’omonima graphic novel del giapponese Jiro Taniguchi, e dopo le tappe romane è arrivato a Milano.
“L’uomo che cammina” è un itinerario urbano ed esistenziale seguendo a distanza un uomo sulla settantina, alto, magro, capelli e barba bianchi, uno zaino sulla spalla. Il progetto è un’ode alla lentezza, sulle tracce del nostro tempo e della bellezza attorno a noi, a volte sfuggente perché nascosta nel degrado, nelle intimità violate degli spazi e dell’anima.
Scarpe comode, impermeabile oppure ombrello in caso di pioggia, un paio di biglietti della metro: inizia così il nostro viaggio nelle viscere di una città. Usiamo come lente la curiosità per cogliere enigmi, contraddizioni, dettagli visivi e sonori d’ogni genere.
Paesaggi urbani, paesaggi umani. Ogni viaggio ha il suo vestibolo. Quello di Dom- è nel centro della città dentro il “secolo breve”. Il Museo del Novecento è un edificio d’epoca fascista attiguo a Palazzo Reale, a pochi passi dal Duomo. Muniti di cuffie, saliamo a spirale nel tempio delle avanguardie storiche. Lambiamo opere eversive che esprimono le angosce dell’uomo contemporaneo: sono dipinti e sculture di Pelizza da Volpedo, Boccioni, Morandi, Fontana, Sironi. Esploriamo, attraverso l’astrattezza deforme, nella compenetrazione di materia e spazio, la stessa fragilità con cui ci misureremo da qui a poco: l’individuo anonimo, la provvisorietà, l’alienazione, la deriva delle guerre e dei totalitarismi. Dall’ampia vetrata sulla piazza, gli uomini sono solo puntini stipati, simili ai piccioni che svolazzano intorno.
Milano galleggia. Una ventina di spettatori al seguito dello scrittore Antonio Moresco s’incuneano nelle vie del centro, sbirciando la chiesa di S. Satiro dal curioso finto coro bramantesco, bizzarra prospettiva rinascimentale. Scendiamo nel ventre della metropoli attraverso la linea gialla, dopo aver volto lo sguardo alla Torre Velasca, grattacielo di 106 metri simbolo dell’ineffabile Boom.
Riemergiamo a Corvetto, periferia Sud del capoluogo. Inizia il viaggio vero e proprio. Partiamo per arrivare dove eravamo già. Ma qui, attraverso le strade di un quartiere con ampie zone di degrado, ridefiniamo i contorni della città segreta, che scorreva inavvertita sotto gli occhi di tutti, tutti i giorni, paesaggio amorfo dietro il finestrino del bus. Una cascina, un night club, un parco che era una meraviglia prima di diventare covo di spacciatori e poi discarica. Rifiuti fumanti come installazioni d’arte di Tim Noble o Sue Webster. Effetti sonori deliranti, come le canzoni di Tenco e Dalida diffusi da una cassa.
Muschio, licheni, binari morti. Una ferrovia arrugginita si perde nel nulla. L’abbazia di Chiaravalle è un tuffo nel medioevo: una sparuta comunità cistercense intona le preghiere del vespro. Percorriamo i campi coltivati dai monaci. Si alza un vento che sembra un effetto scenico grandioso, e invece è una tempesta che increspa le acque dei canali e di laghetti artificiali grandi come campi da basket. Il vento crolla le cime degli alberi. Le luci calano, le ombre si dilatano. Non scende la sera, ma la fine del mondo.
Sullo sfondo, luci azzurre e viola dietro enormi tralicci. È buio. Il vento cala dopo averci soffiato in faccia qualche rametto. Gli alberi sono caduti altrove. Affiorano i contorni sfocati di palazzoni come caserme. Procediamo a passi fitti. Sotto le suole delle scarpe, sensazioni di foglie secche ed erba alta. Un party bag, diffusore acustico incorporato in uno zaino a spalla, sciorina nelle orecchie parole calde pastose: narrano di passeggiate solitarie nel cuore della notte, dentro quell’enorme mistero a cerchi concentrici che si chiama Milano. Sono storie di cefalee e vertigini, racconti di baratri, aggressioni, cadute e risalite.
Milano ora è la città metafisica dei quadri di De Chirico. Drammaturgia, musiche, incontri effimeri (una prostituta, una donna islamica bellissima sotto il velo, una signora che prega, la sagoma struggente di una cantante da piano bar, due ragazze in costume dentro una piscina) creano lo spazio per soliloqui.
“L’uomo che cammina” attraversa zone in ombra che non trovano posto nelle guide turistiche. Esplora quartieri dai nomi esotici per chiunque, tranne che per quelli che ci abitano. Narra i monumenti, le palazzine, le persone, i negozi, le chiese, i santuari. Attraversa i parchi, lambisce i ponti e le scuole. Il viaggio sembra non finire mai. Milano cambia, dilaga.
Uno scrittore, Antonio Moresco, i registi e ideatori (Leonardo Delogu e Valerio Sirna), attori e comparse (Paola Galassi, Isabella Macchi, gli allievi dell’ITAS Giulio Natta) affrontano con un pugno di spettatori un itinerario di quasi cinque ore e tredici chilometri. Ma anche dopo gli addii dietro le cortine di un motel dimesso, ognuno continua il viaggio da solo. C’è chi cerca il proprio passato, i luoghi dell’infanzia sfigurati dalla speculazione edilizia o riqualificati. C’è chi trova tracce della cronaca recente o remota. C’è chi fruga tra le vetrine di un ricordo acquattato. C’è chi interroga gli anfratti di un quartiere e chi li immagina come un sognatore. Attraverso immagini, atmosfere, suoni, odori e persino un boccone di pizza e un sorso di birra, ognuno ascolta la voce della propria umanità.
Milano è un anello vivo. Come quando getti un sasso nell’acqua. Il sasso affonda, ma sulla superficie si disegna prima un cerchio, e poi un altro più grande, e un altro ancora. Finché – anche quando il sasso originario non si vede più – tutta l’acqua è una vibrazione misteriosa e nuova, quasi indifferente al centro scomparso che l’ha generata. È questa vibrazione che “L’uomo che cammina” cerca. Regalandoci la città infinita. Dai colori sdruciti, eppure intriganti.
Danae Festival prosegue oggi, 27 ottobre, con “Trigger” di Annamaria Ajmone e “Put your heart under your feeet… and wolk” di Steven Cohen: due percorsi tra danza, installazioni, scultura, performance e video. Domenica 28 è la volta di Enrico Malatesta e Attila Faravelli con “No Island but other connections”, esperienza d’ascolto e sound art a contatto con l’acqua.
Lunedì 29 trionfo della corporeità con “Euforia” di Habillé d’eau. Martedì 30, performance tra coreutica, fisica e filosofia con “Bau#2” di Barbara Berti, a seguire Monica Gentile e Marcela Giesche con la coreografia “lignea” “Fire of unknown origin”. Il 31 spazio alle atmosfere danzanti di Francesco Marilungo, con “Love souvenir”. Doppio appuntamento, il 2 e il 3 novembre con lo spettacolo cult “Al presente” di Danio Manfredini. Finale il 3 novembre con l’energia e il carisma di Ioannis Mandafounis in “Sing the positions”. Per concludere, spazio alla riflessione e ai ricordi il 4 novembre: prima i pensieri e le parole di “Laterale”, incontro con Massimiliano Civica, Michele Di Stefano, Daria Deflorian e Antonio Tagliarini. Infine il progetto di videointerviste “Vent’anni”, curato dal Teatro delle Moire.