Negli spazi espositivi della Galleria Tedofra è stata infatti inaugurata una mostra fotografica (visitabile ancora fino a domani, 30 gennaio) dal titolo “Abitàti – Àbitati”, curata dal fotografo Francesco Trombetti e da Massimo Carosi, da sedici anni direttore artistico dell’ormai ben noto festival bolognese Danza Urbana che, per primo in Italia, ha proposto la danza nei luoghi del quotidiano, andando da un lato alla ricerca di un pubblico non abituale e, dall’altro, cercando di stimolare la creatività degli artisti attraverso il confronto con spazi extra-teatrali.
Proprio all’esperienza pluriennale di Danza Urbana si legano gran parte degli scatti di “Abitàti – Àbitati”, collettiva che riunisce l’opera di cinque fotografi (Francesco Trombetti, Renzo Zuppiroli, Gino Rosa, Giancarlo Donatini e Gabriele Orlandi) e che sembra animata dall’intento di catturare nell’immagine la fuggevolezza dei corpi danzanti nello spazio cangiante e variegato della città, il tutto con uno sguardo sempre diverso e personale, ora attento a cogliere quasi la materiale carnalità dei corpi, ora capace di trasformare la figura umana al punto di renderla parte indistinguibile dello spazio.
La mostra fotografica è stata poi la cornice della presentazione del volume “Danza e Spazio – Le metamorfosi dell’esperienza artistica contemporanea”, recentemente pubblicato da Rossella Mazzaglia, ricercatrice e docente di Storia e tecnica della danza e del teatro presso l’Università di Messina.
Il dialogo fra l’autrice, Massimo Carosi e il critico Agnese Doria ha costituito così l’occasione per chiedersi quale sia il ruolo che lo spazio esercita in rapporto alla pratica e alla fruizione della danza, rivolgendo l’attenzione sia alla storia che a concrete esperienze contemporanee.
Gli esempi riportati dall’autrice, che spaziano da Trisha Brown – vera e propria danzatrice urbana ‘ante litteram’ – a Pina Bausch o Virgilio Sieni, mostrano come la pratica della danza creata e agita in luoghi extra-teatrali (urbani o naturali) abbia prodotto nel tempo la nascita di una sorta di ‘genere’, capace di aprire percorsi nuovi di ricerca e di esercitare un profondo influsso sulla concezione e sulla costruzione delle opere coreografiche, anche di quelle destinate a spazi teatrali consueti.
Le esperienze artistiche contemporanee, spiega Mazzaglia, mostrano come la ricerca sui luoghi della danza possa essere declinata attraverso molteplici modalità, dalla danza ‘urbana’ in senso stretto ad altre forme di collaborazione con territori spesso periferici e particolari gruppi sociali (come nel caso di Virgilio Sieni, ma non solo).
In ogni caso, tuttavia, l’impulso dominante sembra essere quello della ricerca di una forma di ‘prossimità’, non tanto rispetto al pubblico – che, in quanto tale, costituisce più un’astrazione ideale che una realtà concreta – quanto con il singolo spettatore.
La sperimentazione coreografica negli spazi della quotidianità, così come quel teatro cosiddetto ‘di ricerca’ che stabilisce una forma di sguardo diretto al singolo pur servendosi di tutti i mezzi della teatralità (qui uno dei riferimenti dell’autrice è agli ultimi lavori della Socìetas Raffaello Sanzio), sembrano andare alla ricerca di una sorta di contatto ‘fisico’ con gli spettatori, chiamando in causa l’individualità di ognuno con modalità e, soprattutto, con esiti differenti.
Ecco allora che un simile discorso si arricchisce anche del riferimento concreto alle passate edizioni del festival Danza Urbana, offrendo ai relatori (oltre che a molti del pubblico) l’opportunità di confrontarsi con un’esperienza artistica vissuta in prima persona, sia ricordando spettacoli e momenti particolarmente significativi, sia menzionando difficoltà produttive e di dialogo con le istituzioni.
Su tutto questo – anche grazie al contributo di lavori scientifici come quello di Mazzaglia – è forse ormai possibile riflettere fruttuosamente, in uno scambio che metta in contatto teoria e prassi, studio scientifico e realtà creativo-produttiva. Due mondi così prossimi ma non sempre, purtroppo, realmente vicini.