Il festival Interplay scommette su spettacoli brevi e fa il pieno di nomi: da Ambra Senatore a Giselda Ranieri, da Carlo Massari agli artisti stranieri
Prosegue la danza contemporanea del festival Interplay di Torino. E lo fa alternando artisti e location, linguaggi e suggestioni, mantenendo però inalterata una costante: il notevole interesse da parte del pubblico che ha affollato con entusiasmo tutti gli appuntamenti.
“Re_Play” di Giselda Ranieri (di cui avevamo assistito ad uno studio, lo scorso settembre, nell’ambito degli Open Studios della NID Platform) cerca di addentrarsi nel rapporto fra essere umano e tecnologia (nelle sue declinazioni social) attraverso le armi dell’ironia. L’artista si esibisce in una gallery di pose compiaciute, ammiccamenti, smorfie, frivolezze alternate a improvvise e inspiegabili espressioni disperate, il tutto a favore di pubblico e webcam.
L’ossessione della propria immagine pubblica fa di lei un perfetto pesce d’acquario (non a caso i due notebook utilizzati in scena hanno come screensaver proprio due pesciolini placidamente a mollo). Le molteplici possibilità di interconnessione che la tecnologia ci offre evolvono (o, sarebbe meglio dire, involvono) in una testa parlante, all’interno di un lcd da 15″, che pare essersi impossessata del corpo della Ranieri.
L’azione coreografica è frammentaria, ondivaga e dispersiva, proprio come un’esistenza consumata in rete può rischiare di trasformarsi: percorso frastagliato ricco di imprevisti e umori altalenanti capace forse di un minimo di stabilità emotiva nel momento in cui l’attenzione viene catalizzata dalle immagini di una performance coreografica sullo schermo, salvifica evasione dalle derive schizofreniche che un eccesso di socialità online può riservare.
Si torna ad una coreografia di stampo meno concettuale e più danzata con “Round Trip” di Roberto Tedesco, produzione della MM Contemporary Dance Company diretta da Michele Merola. Dodici minuti in cui il “viaggio di andata e ritorno” (il round trip per l’appunto) si svolge da un capo all’altro dello spazio scenico attraverso i corpi in movimento dei sei danzatori in scena (tutti dotati di pregevoli doti tecniche e stilistiche).
La ricerca di un ordine formale si sgretola di fronte alle trasformazioni provocate dal disordine creativo a cui la partitura coreografica sembra volerci mettere di fronte. Singole identità che sembrano letteralmente moltiplicarsi. Che si tratti di danza o vita poco importa, l’una non può prescindere dall’altra e lo spazio “senza il quale non esisterebbe il movimento” è l’ideale territorio in cui liberare i corpi e generare nuovi significati da prospettive più ampie. Di notevole impatto, nella riuscita dell’opera, il contributo del sound targato Alessio Natalizia aka Not Waving.
Una lotta, una riconciliazione e di nuovo la lotta. Una sorta di contesa, questi brutali poemi d’amore (“Brutal Love Poems”) firmati Thomas Noone, londinese di nascita ma barcellonese d’adozione professionale, anch’essi prodotti dalla MM Contemporary Dance Company. Una disputa che coinvolge le relazioni più intime iniettandole di passione, seduzione, ma anche rabbia e sofferenza. I quattro interpreti in scena si alternano nei ruoli, da dominanti a sottomessi il passo è breve, ma sono le figure femminili a dominare, a costringere i partner alla resa. L’opera, impreziosita anche dai tagli di luce firmati dallo stesso Noone, si sviluppa in movimenti di pura tensione, sensualità e potere in cui l’esito lascia i protagonisti sfiniti, come al termine di un incantesimo che abbia prosciugato loro tutte le energie.
La serata del 30 maggio permette al pubblico piemontese di fare la conoscenza dell’ultima creazione targata Carlo Massari e la sua C&C Company insieme a COB Compagnia Opus Ballet. “Right” come destro, giusto, retto, ma anche rito nel caso in cui volessimo soffermarci sulle affinità sonore della sua pronuncia. Ed è proprio la preparazione di un rito, quella che ci si para di fronte nel momento in cui facciamo ingresso in sala: sei anime nude accerchiate da sei inquietanti presenze, anziane infermiere di una sorta di laboratorio degli orrori illuminato dal bagliore instabile dei neon.
Le celebri note della “Sagra della Primavera” di Stravinskij accompagnano i movimenti da cavie delle sei danzatrici, le sei vergini elette, mentre vengono osservate, controllate, esaminate e sedate da sei infermiere. Struggente il richiamo alla mamma di alcune di loro, che cede il passo ad un disperato urlo collettivo mentre i corpi si contorcono in cerca di nutrimento; brutale la pratica di fecondazione artificiale a cui vengono sottoposte, sinistro e truce l’epilogo grandguignolesco che le lascia esauste a terra.
Un lavoro diretto, disturbante a tratti, che può evocare molteplici ispirazioni (Matisse, Atwood, Foucault) ma che, secondo lo stesso Massari, è nato e giunto a compimento in primo luogo per scandagliare l’opera di Stravinskij, con doveroso senso di responsabilità sia nei confronti dell’opera stessa che delle numerose e autorevoli messe in scena precedenti: «Nella Sagra della Primavera si parla costantemente di saggi, anziani, coloro che possono decidere quale sarà la nuova vergine… Ma chi può decidere chi sceglierà le elette, le vergini sacrificali?». Il sacrificio rituale e propiziatorio della Sagra viene dunque declinato nella contemporaneità come il sacrificio di un’intera schiera di elette, l’intero genere femminile, sottomesse da innumerevoli generazioni al dominio di decisioni altrui.
Un ritorno a Torino dopo undici anni per “A posto” di Ambra Senatore. Lo spettacolo aveva infatti debuttato, come prima italiana, nell’ottobre 2011 all’interno del programma di Torinodanza, che ne è coproduttore. Uno spettacolo con una storia alle spalle, di cui probabilmente quasi tutto è già stato detto o scritto. E allora lo affrontiamo attraverso le possibili visioni e i possibili viaggi che “A posto” permette ancora oggi di fare.
In scena tre giovani donne (Caterina Basso, Claudia Catarzi e la stessa Senatore), belle ed eleganti.
Buio, luce. Entrate ed uscite. E sguardi come a ricercare qualcuno, come ad attendere qualcosa. Con paura? Con speranza? Difficile a dirsi. Ma la relazione tra loro appare un legame di amicizia misto a convenevoli leggermente stucchevoli, come quando le donne non vogliono realmente mostrarsi per ciò che sono, ma apparire sempre un po’ meglio, regalando quella bellezza che tanto si aspetta da loro.
Paiono in gita, sembrano trascorrere una giornata lieta che piano piano diventa metafora della vita, con i gesti quotidiani che si ripetono giorno dopo giorno, all’infinito, e con gli oggetti che rotolano in scena a completare la storia.
Entrano ed escono, e con loro entrano ed escono paure che diventano poco alla volta ossessioni, manie, rabbia e disagio.
Parlano fra di loro sottovoce, cercano una relazione diversa. Come scambiarsi realmente le emozioni? Come far comprendere all’altro chi siamo realmente?
La danza diventa costruzione di un tentativo bizzarro ed ironico di costruire un dialogo attraverso un movimento che diventa scambio continuo, attraverso piccoli indizi che ci chiamano a comprendere quanto sia fragile la vita, e quanto sia possibile scherzarci sopra.
Ritroviamo così il gioco e l’ironia, tipici dei lavori di Ambra Senatore, che esplodono in un finale in cui siamo davvero liberi di scegliere la nostra storia riavvolgendo il nastro.
Di “Totemica, liturgia della dispersione” ciò che appare evidente fin dai primi istanti è la fisicità e la bravura di Chiara Montalbani, in scena per questa anteprima nazionale firmata da Manfredi Perego.
Ciò che invece non è di così facile lettura, ed è naturale sia così, è la riflessione del coreografo sulla condizione dell’uomo contemporaneo e “il suo senso di onnipotenza perpetuo”, come si legge nel foglio di sala, perché la condizione umana è di per di sé un grande buco nero. Difficile da affrontare se non attraverso processi estremamente personali.
Ciò che riporta “Totemica” allo spettatore è il senso di una profonda solitudine, di una reclusione forzata dentro sé stessi, oggi l’offerta rituale al dio Covid. Un dio che ci ha tolto la capacità di relazione, che ci ha isolati, devastati e poi risputati in un vortice in cui non sappiamo più come nuotare.
Ancora una volta torna il rito. Un rito che forse non sappiamo compiere, fatto di preghiere infruttuose che si perdono nel movimento impazzito così consono alla nostra razza.
Come Chiara Montalbani anche noi sbattiamo le ali come falene impazzite cercando continuamente un senso fuori di noi. E quel respiro, nel buio che scende, ci pare l’unica soluzione, un respiro che ritorni al suo ritmo naturale e un corpo che nel silenzio sappia darsi pace.
Bianco il fondale, la scena, bianche e immacolate le tenute dei cinque interpreti. Collettivo Mine (di cui vi abbiamo proposto un’intervista di recente) presenta qui a Interplay il lavoro con cui hanno vinto il bando DNA Appunti coreografici nel 2019 e partecipato alla NID Platform di quest’anno. “Esercizi per un manifesto poetico” comincia come se si trattasse di una blanda seduta di riscaldamento per poi trasformarsi, gradualmente, in un’ipnotica e ossessiva performance che esalta la sincronia simbiotica della partitura coreografica, l’armonia dei corpi nel disegnare geometrie all’interno dello spazio scenico, l’estetica della resistenza fisica che si manifesta nella luccichio del sudore dovuto allo sforzo prolungato. Un moto perpetuo che si sviluppa e si fa più articolato nel crescendo delle musiche originali di Samuele Cestola, un’escalation che, a dispetto di un’apparente semplicità della scrittura, nasconde invece un’elevata complessità di realizzazione e sprigiona un fascino di forte impatto sia nello sguardo, rapito dalla perfezione estetica del gesto collettivo, sia nelle percezioni, ammaliate da un incantesimo iterativo che, al termine dei 40 minuti di spettacolo, vorresti veder proseguire all’infinito.
“Divergence” dei taiwanesi B.Dance guidati dal coreografo Chien-Chih Chang, coreografo dell’anno nel 2018 secondo la rivista tedesca Tanz, affonda la propria genesi nelle scene di combattimento acrobatico dell’Opera di Pechino. I due giovanissimi danzatori, l’uno in costume bianco e l’altro in nero, Yin e Yang di una dialettica coreografica che è danza e arte marziale allo stesso tempo, si confrontano in un duello privo di colpi ma denso di sguardi, mosse acrobatiche, sospensioni e traiettorie strategiche tese ad impossessarsi del dominio nell’ideale scacchiera rappresentata dallo spazio scenico.
La danza ‘fuori dai teatri’ di Interplay incrocia poi il pubblico, più o meno casuale, nel parco del Valentino con due spettacoli del Focus Spagna che, seppur prodotti da due compagnie diverse, in qualche modo si parlano da vicino.
Un legame stretto con la terra, con il prato che fa da palco, con gli alberi che creano lo sfondo, è quello di Marcat Dance che presenta “Adama”.
La matericità del colore degli abiti dei tre danzatori si lega al tema della performance, che indaga una danza che sembra emergere dalla terra e vive di natura selvaggia. L’erba che si strappa sotto i movimenti dei danzatori e rimane loro addosso è parte di questa relazione che cerca nelle radici – e nei contrappesi dei compagni – la forza per ancorarsi alla terra e alla vita, in una danza dinamica e coinvolgente.
E la natura, i colori, una corporeità materica sono elementi che fanno da leit motiv tra le due proposte. Proyecto Larrua presenta “Idi-begi”, una performance di danza urbana che si ispira al mondo rurale e agli idi probak, termine basco che indica la forma più popolare di giochi di trascinamento con i buoi, che appunto trascinano una enorme roccia in un dato spazio e tempo. In scena tre performer fanno quindi rivivere il rapporto ancestrale tra l’animale e l’uomo nella sua gerarchia e fisicità.
L’undicesimo appuntamento porta Interplay ancora una volta fuori dai luoghi deputati della danza per incontrare la periferia torinese: ci si sposta a Mirafiori Nord alla Cascina Roccafranca. 2500 mq restituiti alla città e al quartiere dopo un importante intervento di riqualificazione iniziato nel 2004. Oggi Cascina Roccafranca è un centro socio-culturale polivalente.
Portare la danza (o altre forme di spettacolo) nelle periferie non è solo esportarla in luoghi “scomodi” ma diventa, e deve diventare scambio, deve scardinare stereotipi, paure… e pigrizie.
Tre le performance presentate negli spazi di Roccafranca. Aprono gli italiani Emanuele Rosa e Maria Focaraccio con “How to_just another Bolero”, selezionato tra le 14 creazioni della Vetrina della giovane danza d’autore extra 2021. Superfluo parlare della colonna sonora, il famoso Bolero composto da Maurice Ravel nel 1928. Vestiti di soli slip color rosa i due danzatori sono a terra, quasi incastrati uno nell’altro, costretti in una fusione di corpi che cercano, pur con timore, di scardinare attraverso la scoperta del mondo esterno e del proprio essere identitario. Ci si ribalta, si ci contorce, si cerca una via di uscita, ci si guarda attorno sorpresi e curiosi di trovare altro. Nel crescendo musicale i corpi muovono i primi passi. Trovano una posizione eretta che li rende autonomi e apparentemente più forti. Metafora dell’indole prevaricatrice dell’essere umano, il movimento continua nel tentativo di salire oltre sé. Un tentativo goffo ed estremo per provare ad essere uno più in alto dell’altro, uno più forte dell’altro. Ma in questa gara non ci sono vincitori, ci si ritrova di nuovo a terra, rinchiusi. E questa volta non più uniti ma soli. Distanti e diffidenti.
Segue “Fight” della compagnia spagnola Lasala diretta dalla coreografa Judith Argomaniz.
Le danzatrici, come su un ring, mostrano i loro muscoli, cercano il consenso degli spettatori e sfidano l’avversaria.
E’ un lavoro molto fisico, in cui Garazi Etxaburue e Miren Lizeaga fanno sfoggio delle loro capacità atletiche come due moderne lottatrici perennemente alla ricerca della vittoria. Ma 13 minuti sono forse troppo pochi per farci immergere nel complesso mondo della lotta come “legame primitivo che è presente fin dall’inizio dei tempi”. Si sente il bisogno di un’ulteriore ricerca all’interno di un tema così complesso, e purtroppo così attuale.
Il pomeriggio si chiude indoor con la Re-Action Integrated Dance Company, nata all’interno dell’associazione sportiva dilettantistica Ballo anch’io, fondata a Torino nel 2006 da Marilena Goria, insegnante e coreografa che ha sviluppato in Italia la danza in carrozzina.
“Abbiamo davvero bisogno di 2 gambe per danzare?”, “Può danzare solo un corpo anatomicamente perfetto?”. Assistere alla performance, un lavoro a coppie in cui due delle quattro danzatrici sono sulla sedia a rotelle, toglie ogni dubbio. Non siamo spettatori di nessun messaggio retorico o tantomeno pietista, guardiamo quattro corpi che danzano, si confrontano, si aiutano e interagiscono. Usando le proprie caratteristiche nel creare bellezza. Non c’è altro da dire. E i tanti applausi sono tutti meritati, anche per chi ha diretto le danzatrici.
Ultima data che chiuderà il festival, martedì 14 giugno alle 19 al Polo del Novecento, è l’installazione performativa di Eva Frapiccini “Dust of dreams” che, attraverso diversi linguaggi (arti visive, musica, video arte…), esplora la vita onirica delle persone. Un progetto partecipativo che ha toccato, in dieci anni dalla sua nascita, dodici città nel mondo per indagare le parole-archetipo che abitano i sogni di culture diverse.