Da Favale a Burzacchini, dall’Italia al mondo: ultimi atti di Danza Urbana

Garage kit di Francesca Burzacchini
Garage kit di Francesca Burzacchini
Garage kit di Francesca Burzacchini (photo: Laura Arlotti)

E’ stato il pomeriggio internazionale di Danza Urbana, quello di venerdì scorso.
Protagoniste le quattro creazioni vincitrici del concorso spagnolo Masdanza, collocate – come di consueto – in luoghi vari del centro di Bologna.
Ambientazioni diverse e forse mai così suggestive come in questa giornata, ognuna a suo modo: da velluti, marmi e scaffali di musei e silenziose biblioteche fino al brulicare delle persone sotto al cielo della piazza, ogni luogo si è fatto teatro di uno scambio singolarissimo fra la danza e i pubblici, anch’essi tanto diversi fra loro, che vi assistevano.

Siamo partiti così dal cinquecentesco Palazzo Fava con “Bachelor Day”, dell’ungherese Zoltàn Grescò: nel titolo e sulla carta, una performance sul matrimonio e su ciò a cui esso ci costringe a rinunciare. La libertà, ironicamente? O, in un senso più generale ed esistenziale, la nostra personalità, quello che ci appartiene più nel profondo? Difficile capirlo, almeno dal programma di sala.
Di certo, dopo i primi secondi, iniziamo a percepire quello che sarà il tono predominante: un’angoscia frenetica, tutta sospiri, talvolta un po’ forzati, e frasi di movimento che si ripetono, dapprima lente, poi sempre più vorticose e violente. Colpa di una notte brava o di un’ansia difficile da trattenere pensando al grande giorno, fatto sta che il povero scapolo si lascia investire da un continuo inanellarsi di salti, torsioni, cadute e contrazioni: il tutto così fluido, perfetto e virtuosistico da sembrare poco credibile. O poco omogeneo, forse.
Come soffermarsi e partecipare delle carezze disegnate da quelle mani, capaci di essere significative, tremanti e piumate, se poi la tecnica spazza via ogni fremito, rendendo la ricerca sul movimento più facile ma così poco sorprendente?

Una certa ingenuità, quindi, che ci sembra di percepire a tratti anche nel più compiuto “The gentless was in her hands”, della canadese Helen Simoneau. Sotto la cupola immacolata della biblioteca di San Giorgio in Poggiale, tra lo splendore di marmi e legno chiaro, assistiamo alle evoluzioni di una bambola meccanica con animo di donna, che riesce a rompere gli automatismi di un corpo che si muove come un carillon per assaporare, con un salto, il respiro della libertà.
Al di là di qualche eccesso di mimetismo, dallo sbattere delle ciglia a certe posizioni che ci fanno pensare alla bambola del balletto per eccellenza, Coppelia, sono i momenti in cui la pupattola sembra rompersi quelli che bloccano il respiro.
Bambola claudicante che non smette di cercare, di andare, di tentare. E ogni cosa, la ricerca, il viaggio, la prova, alberga lì: nel respiro che ingrossa il petto e nelle mani che indicano sempre una nuova meta da seguire.

E’ ai piedi di San Petronio che invece i tre danzatori della Compagnia Le Supplici di Fabrizio Favale disegnano i propri arabeschi in “Un ricamo fatto sul nulla”.
La coreografia si presenta così come un succedersi di disegni puri, forme precise nello spazio, braccia che scrivono, ora plastiche ora serpentine, il proprio tragitto nell’aria, e gambe che consentono al corpo di compiere distanze, cambiando livelli, scivolando e facendosi puntello per piroettare su se stessi. Ma, più di tutto, “Un ricamo fatto sul nulla” è una danza di ascolto e di relazione profonda fra chi la esegue: i percorsi dei danzatori, disposti uno dietro l’altro, si intrecciano così strettamente da diventare indistinguibili gli uni dagli altri, creando figurazioni, certamente, ma dandoci soprattutto l’immagine di una coreografia inafferrabile che scorre senza soste nel rigore più estremo e minimale.
Danza di ascolto sì, ma fra corpi in carne ed ossa: può accadere allora che due danzatori sostengano il peso del terzo, lo afferrino per le braccia e lo aiutino così ad esplorare lo spazio, magari trattenendolo per la maglietta che, dilatata, si fa appendice del corpo.
Un passaggio di energie, informazioni e contatti in cui tutti i sensi sono chiamati a fare la propria parte, pena il rischio di recidere un filo, anche uno solo, capace di distruggere l’intero ricamo.

Sempre dall’Ungheria viene Ferenc Feher, autore del giocoso ma intelligente “Tao te”, ospitato sotto il cortile d’onore di Palazzo D’Accursio: due uomini si affrontano in un duetto-duello in cui le arti marziali offrono non solo il materiale con cui costruire la danza, ma infarciscono il lavoro anche di un sapore peculiare, in cui l’acrobazia non è mai ostentata e fine a se stessa, prestandosi invece alla gag e trasformando spesso il corpo in mirabolante marionetta.
Una materia dinamica spettacolare e di impatto organizzata con sapienza, in uno schema fatto tutto di sequenze che, dapprima incomplete e come insensate, acquistano una loro pienezza nel momento in cui vengono ripetute, incastrandosi in un meccanismo dove i rapporti di consequenzialità fra i vari momenti si fanno sfumati. Ogni azione si salda con la precedente e la successiva costituendo un’unità destinata a tornare continuamente su se stessa, senza conoscere sviluppo diacronico.
Nessuna linea retta per questa danza, ben diversa del percorso compiuto dalla misteriosa figura di donna che, una enorme gonna verde indosso, cammina implacabile sullo sfondo.
Solo un breve ed enigmatico momento la vede assoluta protagonista: la sua danza, il busto in avanti e la testa all’ingiù, si esprime attraverso braccia che diventano ora serpenti, ora candelabri, e mediante un dorso inquieto, quasi dotato di vita autonoma. Immagine di creatura non umana.

Proviene da un concorso, stavolta tutto italiano, anche la performance con cui si è conclusa, sabato scorso, l’edizione 2011 di Danza Urbana: si tratta di “Garage kit”, la coreografia di Francesca Burzacchini arrivata tra i finalisti dell’ultima edizione del premio Giovane Danza D’Autore.
Una breve introduzione danzata, con protagonista la stessa Burzacchini, ci conduce nell’immaginario di riferimento dell’intero lavoro: stivali con tacco alto, corpetto e minigonna neri; la danzatrice, che sfoggia una pettinatura con due chignon ai lati della testa, si presenta come una stramba figura di stile nipponico, metà bambola dalle lunghe gambe, metà affascinante creatura da fumetto.
L’autrice ha infatti guardato, per questa coreografia, proprio agli Otaku, gli appassionati di fumetto che ne fanno quasi una ragione di vita, fino a perdere il contatto con la realtà e con gli altri.
E così già il prologo coreografico rivela le caratteristiche di tutto il pezzo: una danza ossessiva, ripetitiva, fatta da un lato di teste abbassate contro il petto, spalle cascanti, ginocchia tremule e piegate verso l’interno, e dall’altro di movimenti che rimandano alle arti marziali e al combattimento, ora verso se stessi, ora verso un nemico immaginario da guardare fisso negli occhi.
Non è mai rivolto verso il pubblico però lo sguardo dell’interprete, che esegue tutta la sequenza coreografica di spalle, salvo poi voltarsi e, gli occhi fissi e vuoti, camminare implacabile verso gli spettatori, per sparire, lenta, in mezzo al pubblico.

Portano a compimento il lavoro, in una sorta di duetto dell’incomunicabilità e dell’incapacità di incontrarsi, Monica Gentile e Laura Ulisse: pantaloni neri e t-shirt con personaggi da fumetto, le due ragazze sviluppano la materia coreografica in maniera coerente e diligente sia rispetto all’immaginario di partenza sia in rapporto a quanto mostrato nei primi minuti. Ritorna quindi la chiusura, talvolta portata a sfiorare l’autismo, la ripetizione e il passare attraverso pose nette e precise, immagini nitide cui fanno da contrappunto scatti e tremori: quanto appaiono goffi e sfortunati i tentativi di contatto fra le due, ora con una guancia vicino all’altra quasi ad ascoltarsi o a fiutarsi, ora con le braccia spalancate e i piedi piantati a terra per ostacolarsi vicendevolmente il cammino.
Tutto torna in questo lavoro, sostenuto fortemente dal contributo sonoro realizzato live dalla Gibson Andrea Fiorni, anch’esso giocato sulla ripetizione di sonorità talvolta violente, vibrate e dal sapore spesso metallico.
Tutto giusto e ancora farraginosamente coerente.

Si chiude così, un po’ in sordina, questa 15^ edizione di Danza Urbana: davanti a spettatori attenti, partecipi ed entusiasti. Ma numericamente pochi, inutile negarlo. Un finale che, in definitiva, fotografa le abitudini di un pubblico quanto mai di nicchia come quello della danza contemporanea, fatto di persone spesso competenti, appassionate e costanti nel seguire i propri artisti preferiti così come le novità, soprattutto se vengono da lontano.
Si potrebbe però obiettare che questo non è un festival per addetti ai lavori, nascendo con l’intento di portare la danza in mezzo alla città e alle persone che ne costituiscono la comunità. Eppure tutto questo spesso non accade, e la sola comunità che più volte è capitato di vedere era quella, compatta, degli appassionati.

Tuttavia il gesto, l’azione, la musica, proprio nel momento in cui attraversano la realtà cittadina e la quotidianità delle persone si trasformano in esperienza, in accadimento quasi. Ognuno lo vivrà a modo proprio, il più delle volte per caso.
Ma potrà capitare che qualcuno, vedendo un ragazzo con la maschera dell’Uomo Ragno e il petto martoriato di cerotti, così come dei danzatori che ricamano l’aria nel caos di piazza Maggiore, si fermi un attimo davanti a quella cosa strana, forse piacevole, magari ridicola o addirittura inquietante.
Nel migliore dei casi nascerà un ricordo. Il che non è da disprezzarsi.

THE GENTLENESS WAS IN HER HANDS
coreografia e danza: Helen Simoneau
costumi: Renee Kurtz
durata: 12’
applausi del pubblico: 1’

BACHELOR DAY
coreografia e musica: Zoltàn Grescò
Visto il 9 settembre, Palazzo Fava
durata: 12’
applausi del pubblico: 2’

UN RICAMO FATTO SUL NULLA
coreografia: Fabrizio Favale
danzatori: Marta Cappaccioli, Samuele Cardini, Martina Danieli
produzione: Compagnia Le Supplici
durata: 15’
applausi del pubblico: 2’

TAO TE
creatori: Ferenc Fehér, Akos Dòzsa
coreografia: Ferenc Fehér
danza: Ferenc Fehér, Akos Dòzsa
musica: Ferenc Fehér
durata: 20’
applausi del pubblico: 2’ 30’’

GARAGE KIT
coreografia: Francesca Burzacchini
con: Francesca Burzacchini, Monica Gentile, Laura Ulisse
durata: 15’
applausi del pubblico: 1’30’’

Visti il 9 e 10 settembre a Bologna

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