Nel corso degli anni le creazioni di Dario Moretti si sono fatte sempre più minimaliste e performative, una tipologia di teatro alquanto anomala per il teatro ragazzi italiano, che lo ha portato a scegliere e ad essere scelto soprattutto da festival e situazioni estere. Di questo e di altro, comprese alcune nostre perplessità riguardo ai suoi ultimi lavori, abbiamo parlato con lui, che ci ha risposto in modo sincero e approfondito.
Pensi che il tuo modo di fare teatro per l’infanzia sia cambiato in questi ultimi dieci anni? E l’infanzia è cambiata da quando hai iniziato a fare teatro?
Il mio modo di fare teatro per l’infanzia cambia ad ogni mio nuovo allestimento, perché non è l’infanzia che cambia ma sono io che mi evolvo e mi sviluppo. Ti ricordo solo questo: il primo lavoro in cui ho iniziato a dipingere durante gli spettacoli risale al 2001. Era un percorso teatrale fatto all’interno delle antiche prigioni del Castello di Mantova, durante il Festivaletteratura, e si intitolava “Dico il Soffio”. Erano quattro stanze in cui interagivano mie istallazioni con attori e con il pubblico. Una di queste installazioni prevedeva una fiaba raccontata da Cristina [Cazzola, attrice della compagnia, ndr] che è “dipinta” da me in diretta.
Da questa performance (possiamo chiamarla così visto che era collocata all’interno di un progetto più complesso) è poi nato, nel 2002, “Le stagioni di Pallina”, spettacolo di cui sono state rappresentate quasi 2000 repliche in diverse parti del mondo, ma soprattutto in Francia.
L’arrivo della pittura nel mio teatro è stato un passaggio dovuto alla mia continua ricerca di nuovi spazi su cui sperimentare ed evolvere il mio lavoro.
Quindici anni prima della pittura, vale a dire intorno al 1986/87, avevo iniziato ad occuparmi della scultura, e tanti miei spettacoli erano nati dalla ricerca di materiali, tecniche e modalità espressive, per entrare maggiormente in contatto con i bambini e con l’infanzia.
In questo percorso, che è durato quasi 15 anni, non ho mai smesso di inserire, nei nuovi spettacoli, le idee e gli stimoli che di mano in mano raccoglievo.
Sono di quegli anni spettacoli e progetti molto coraggiosi, e molto diversi tra loro, talvolta un po’ troppo pretenziosi e sproporzionati alle mie forze e capacità, ma proprio di quegli anni sono anche lavori importanti come Art, Faustino, Storie Fuori dal Guscio, e poi ancora il Pentolone Rovesciato e Fatina…
Io non ho mai smesso di lavorare per i bambini, non ho mai smesso di credere in un teatro per l’infanzia che doveva essere qualcosa di assolutamente speciale, non didattico, non pedagogico, ma prorompente e scatenante; non prevedibile ma sempre alla ricerca dello ‘spiazzamento’ del bambino…
Non hai mai amato la parola, perché?
Non ho mai amato tanto la parola; non dico le storie, ma la parola. La parola per me è noiosa e scontata, il nostro mondo è già pieno di persone che parlano e i bambini sono circondati e sommersi da persone che si rivolgono a loro con parole, parole, parole e richieste e domande e rimproveri e stupidaggini.
Nel teatro devi raccontare delle storie, ma la parola per me deve essere soprattutto una parola “poetica”, un tantino astratta, che al massimo può accompagnare e suggerire, ma mai essere al centro dello spettacolo.
In tutti i miei lavori ho scritto io i testi perché quasi tutti i miei spettacoli arrivano a costruirsi nella mia testa prima con le immagini, con i suoni e con le emozioni che voglio provocare, poi attraverso una storia che li contiene. La mia drammaturgia non la capisci ascoltando o leggendo il testo, ma guardando lo spettacolo e carpendone il “nodo” drammatico.
Le rare volte in cui ho usato dei testi conosciuti, vedi Pinocchio o le Metamorfosi o il più recente “Viaggio di Nils Holgersson”, ho sempre cercato di cogliere un’essenza del testo e ho cercato di parlare del suo contenuto attraverso altre fonti.
Questo non per complicare la mia vita, ma per rendere meno banale e meno scontate le cose che raccontavo.
Sono del parere che se vuoi conoscere una storia te la vai a leggere, a teatro ne puoi percepire l’essenza, e questo è alla base del mio pensiero. Inoltre sono convinto che i bambini apprezzino molto di più uno spettacolo in cui sono coinvolti in senso emotivo e in cui possono ricevere degli stimoli, anche apparentemente incomprensibili, ma capaci di smuovere in loro domande e provocare curiosità, anche se non nell’immediato, magari in un possibile futuro.
Il tuo modo di fare teatro per l’infanzia è molto particolare. E’ un teatro performativo che mette al centro il segno pittorico. Ce lo puoi definire?
In questo momento il segno pittorico si sta evolvendo nel movimento e nella danza. Io stesso, pur non essendo danzatore (e questo ha scandalizzato molti miei/nostri colleghi), “danzo” o, meglio, mi esprimo attraverso un movimento e un gesto.
Ne “Il punto, la linea e il gatto” all’inizio vi era una danzatrice, poi l’ho riallestito mettendo me stesso al centro della scena, perché al di là del mio movimento come danzatore, è molto più significativo e importante il “senso” e la motivazione del mio gesto. E ti assicuro che i bambini hanno colto questa sottile ma essenziale differenza.
La danza di Violaine era gradevole e pulita, ma il senso non arrivava; la mia danza è sconclusionata e ridicola, ma io ne sono consapevole e gioco su questo e astraggo, per arrivare a raccontare e parlare con i bambini. E questo è il frutto di un pensiero e di un lavoro costante che ho sviluppato in trent’anni di contatto giornaliero con bambini dai 3 ai 9 anni. So benissimo che non diventerò mai un danzatore, ma in questo momento il mio corpo sente il desiderio di esprimersi anche attraverso il movimento e la “danza”, e per questo sto lavorando per migliorarmi e per inserire questa mia “danza” negli spettacoli, con leggerezza, ironia, tranquillità. Cerco sempre la qualità nel mio lavoro.
Come riesci a coniugare la tua arte prettamente figurativa con le altre arti? Come ti sei mosso in questo senso?
Per me l’arte figurativa comprende già tutte le arti in sé e in ogni spettacolo che allestisco cerco semplicemente di trovare un equilibrio tra i vari elementi con cui ho voglia di lavorare.
L’atto del narrare è ancora importante? O ti interessa solo il fluire delle emozioni dei bambini?
Per me narrare, raccontare, è sempre importante, ma per questo non penso sia necessario prettamente l’uso della parola. Per quel che mi riguarda la parola viene confinata in un piccolo spazio, che a volte serve a collegare le varie sequenze di significato, ma a volte è usata puramente come suono o strumento o ritmo per fare altro.
Più che il fluire delle emozione dei bambini, mi interessano gli stimoli che riesco a scatenare, le sfide che riesco a provocare.
Tu lavori molto in Francia e non solo. Pensi che il tuo modo di fare teatro sia anomalo per il – diciamo così – mercato italiano o è stata una tua scelta privilegiare l’estero?
Ho cominciato a lavorare all’estero per caso, con molta titubanza e paura. Poi, dopo alcuni anni di difficoltà ed errori, siamo riusciti a trovare la chiave per farci conoscere; da lì abbiamo cominciato ad espandere il nostro mercato fino al punto che, quando iniziavano le programmazioni in Italia, avevamo già il calendario pieno. Questo all’inizio ha provocato un po’ di problemi con il mercato italiano. Comunque io ho sempre avuto problemi con l’Italia perché, anche prima del 2004, i miei spettacoli non corrispondevano alle “necessità” del pubblico e delle organizzazioni italiane.
Alcuni esempi. I miei spettacoli sono sempre durati tra i 35 e i 45 minuti: troppo corti per l’Italia. Tanto per dirti, a “Le stagioni di Pallina” avevamo dovuto aggiungere un pezzo, a spettacolo terminato! All’estero è normale che uno spettacolo duri 35/40 minuti.
Inoltre i miei spettacoli non hanno mai fatto molto uso di parola per raccontare le storie e spesso sono stati considerati ermetici e non facili dagli insegnanti italiani. All’estero io mi esprimo spesso anche in italiano e il già poco testo viene ancora più a ridursi rispetto alla comprensione da parte del pubblico, eppure non mi è mai stata contestata questa cosa, ed è sempre stato considerato lo spettacolo nel suo insieme.
In Italia a volte mi sono ritrovato in sale con oltre 300 (ma anche fino a 600!) bambini, rendendo in questo modo i miei spettacoli ancora più fragili. All’estero difficilmente il pubblico supera le 200 unità.
Alcuni dei tuoi ultimi lavori, pensiamo a “La casa dei divieti” o alla performance vista a Segnali d’Infanzia ci sembrano un poco, diciamo così, ‘autoreferenziali’. Pensi che si adeguino al mercato che hai guadagnato pazientemente all’estero? E’ sbagliata questa considerazione? Sono perfettamente in linea con il tuo teatro?
“La casa dei divieti” non mi sembra tanto autoreferenziale, sicuramente lo è di più “Il punto, la linea e il gatto” e anche la mia prossima produzione “La natura dell’orso”. In questi due spettacoli mi metto direttamente in gioco esprimendo e parlando di cose che mi appartengono e che in qualche modo voglio consegnare ai bambini.
Ne “Il punto, la linea e il gatto” esprimo la mia idea e la mia convinzione che non bisogna farsi inibire dalla paura di “non essere capace” per fare le cose. Da un semplice punto, da una linea che si muove nello spazio, dal gioco che puoi sviluppare attraverso i colori, puoi arrivare a creare un’opera…
Ne “La natura dell’orso” cerco di esprimere quanto ci possa essere di grande e profondo anche nel più piccolo e semplice pensiero: un pensiero di orso, di Dario, di bambino…
Anche “Felicità di una stella” è autoreferenziale: in questo spettacolo racconto quello che sono per me i bambini. Eppure, all’estero, ho fatto tante repliche e ancora continuo a farle.
Il tuo lavoro editoriale come si affianca a quello teatrale?
I libri per me sono importanti perché è come se raccontassi il mio spettacolo da un altro punto di vista. Generalmente l’idea dello spettacolo e l’idea del libro nascono insieme, solo che il percorso del libro e quello dello spettacolo prendono strade diverse e alla fine si hanno due prodotti simili, ma che raccontano in modo diverso la storia.
Anche i libri si sono evoluti nel tempo, comunque per me è ormai quasi impensabile creare uno spettacolo senza pensare anche al libro. Il libro inoltre è un ottimo strumento per prolungare la visione dello spettacolo, per poter ricordare e riflettere anche dopo la visione dello spettacolo.
Oltre ai libri ho spesso fatto anche installazioni legati agli spettacoli, che a loro volta sviluppano un particolare percorso visivo ed espressivo legato ad ogni spettacolo… ma questa è ancora un’altra storia.