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Il Darkness pic-nic di Dom-: “Dovremo controllare se ci siamo proprio tutti”

Darkness pic-nic

Darkness pic-nic

A Roma Fuori Programma Festival ospita il nuovo progetto site-specific itinerante firmato da Leonardo Delogu e Valerio Sirna

Potremmo convocare diversi immaginari per suggerire analogie con “Darkness pic-nic”, il nuovo progetto site-specific di Dom- per Fuori Programma Festival a Roma: il più scontato chiama in causa la convivialità, come quella ad esempio dei lavori del Teatro della Ariette. Anche nel corso della seconda parte del progetto di Sirna e Delogu, infatti, seduti a terra nel mezzo del Parco di Tor Tre Teste, si mangia e si beve, abbondantemente e deliziosamente, cibi semplici e gustosi.

Ma si potrebbe anche associarvi il merletto drammaturgico che Serena Gatti di Azul tesse ai bordi e nelle ferite interne del paesaggio solcato dai suoi “Sentieri“, poiché a margine del cibo c’è una sezione squisitamente teatrale, tratta dal film di Peter Weir “Picnic ad Hanging Rock” (tratto a sua volta dall’emozionante romanzo di Joan Lindsay).

E perché non evocare anche lo sfondamento prospettico di “Veduta” di Mk, recentemente a Roma proprio dentro Fuori Programma? In effetti non opera così diversamente la fuga, la perdita di dettaglio, sugli interpreti in allontanamento dal luogo del convivio nel crepuscolo, laggiù, lontano, in fila.

Ma se decidiamo di posare lo sguardo non sul materiale drammaturgico, sugli strumenti adoperati o sulla loro organizzazione, bensì sull’alone che essi sono capaci di generare, se è un termometro emotivo quello che vogliamo per misurare l’esperienza di questo lavoro, crediamo che occorra spostarsi a Cesena, teatro Comandini, nel 1997. È il secondo anno della Scuola Sperimentale di Teatro Infantile. Così Chiara Guidi ne riporta un ricordo nel suo “Teatro Infantile. L’arte scenica davanti agli occhi di un bambino”, steso con Lucia Amara ed edito da Sossella nel 2019:
“GIORNO 6: TORO.
[…] Nella prima stanza, utilizzando diversi ritmi e posture, mentre camminano come pastori erranti, i bambini ripetono a lungo il testo imparato: “Che fai, luna, in ciel? Dimmi, che fai, / silenziosa luna? […]” L’ostinato è calmo, solenne. A ogni ripetizione cerco di rallentare il ritmo separando tra loro le parole e creando dilatazioni sempre più ampie tra le lettere.
In uno dei grandi silenzi appare un toro bianco, così possente che pare occupi quasi tutto lo spazio della visione. Ogni tanto fa piccoli passi assieme al suo custode vestito di bianco.
Il pavimento trema. La sua presenza ci paralizza”.

L’effetto della presenza di uno sbuffante mostro taurino apparso sulle tavole del Comandini nei cuori di un gruppo di bambini (occhi sbarrati, increduli, eccitati e terrorizzati) è, crediamo, paragonabile alla vertigine che coglie oggi lo spettatore assiso sul prato della periferia romana di fronte alla scomparsa di tre ragazze, Marion, Irma, Miranda, e della loro insegnante di matematica Greta McCraw.
Dove sono finite? Quale oscurità le ha ingoiate mentre salivano a piedi nudi sulla Hanging Rock, fanciulle legate tra di loro fino a pochi attimi prima da sguardi interminabili e tesissimi, ora comprese in un addio tra gli alberi di Tor Tre Teste, ovvero tra i pinnacoli e i monoliti di un’effusione vulcanica australiana, il giorno di San Valentino dell’anno 1900. Cioè l’irruzione di una realtà a un tempo tangibile e non verificabile, della quale si è vittime ma verso la quale si è attratti come da un gorgo vertiginoso.

Ma cos’è “Darkness pic-nic”? Bisogna immaginarne i tre momenti, descritti dal sottotitolo del lavoro: Prologo, Picnic, Buio. Nel buio si finisce ma si parte anche, nella sala del teatro Quarticciolo, un buio totale. Qui Daniela Angelucci ed Emanuela Freire discorrono tra di loro (le voci sono registrate) sulla particolare posizione del mangiare fuori casa, all’aperto; ma fa anche il proprio ingresso un elemento apparentemente alieno: una roccia. E la morte, anche: “Se muori insieme agli altri diventi mondo. Perdi la differenziazione”, ermeticamente si dice.

Dopo una breve camminata, in una vallata del vicino parco ci attende la sorpresa di un fornitissimo banchetto sul prato, sopra un telo nero, ornato da squisiti centrini all’uncinetto, piatti di porcellana e posate legate con lo spago, in parte chiuso dentro eleganti cestini di vimini o panierini con coperchio.
Dalla consolle a un lato Valerio Sirna accompagna con la musica. La conversazione nel pubblico si accende prima tra conoscenti, poi si scioglie anche tra sconosciuti e impercettibilmente il pregiudizio passivo o perlomeno ricettivo degli astanti (un pubblico di teatro che si aspetta di vedere qualcosa) si muta in una postura invece di scambio dialogante, in cui la qualità di decodificazione dei segnali circostanti ha tutte le caratteristiche del quotidiano. E proprio quando questa modalità si è attivata per tutti, quando ormai non ci si attende più di assistere a qualcosa, ma si sta nell’inconsapevolezza di “stare semplicemente bene”, è ora che, non si sa come, una voce prende parola, si direbbe a tradimento.

È la nostra compagna di pic-nic Sara Saccottelli, ingessata in un abito blu un po’ scialbo, bordato sottilmente di bianco. Era lì vicino a noi, ora è la prima a toccare un microfono, scivolata al centro del grande tappeto e la stanno per seguire, a breve, Chiara Aru, Violetta Cottini, Filippo Gonnella, Carlotta Sofia Grassi. Ci racconteranno, ci stanno già raccontando, accucciati a terra ma in una posizione indecifrabile (sono i personaggi? parlano di loro? ne sono una forma di eco oggi?) la tragica storia della sparizione delle gitanti ad Hanging Rock, fanciulle più o meno benestanti chiuse nel soffocante isolamento vittoriano ma provinciale dell’Appleyard College, poco a nord di Melbourne.

Il romanzo, come solo in parte il film, è l’impressione su carta, evidenziata dalla presenza di un narratore esplicito ma senza nome, dell’inatteso che può fare la loro comparsa nelle vite di uomini e donne a partire da una deviazione inspiegabile; è un inno alla distruzione della vita regolata a favore della spaventosa libertà.

Certo, la scrittura di Sirna e Leonardo Delogu si mantiene nella prima parte della trama, successivamente alla quale, dopo l’inspiegabile sparizione con cui la seconda parte del lavoro si conclude, si opererà la rottura della castrante continenza delle regole scolastiche e del bon-ton e si scatenerà (chiamala isteria, desiderio, rivoluzione o perdizione), come per una frustata assestata sul pelo di uno stagno, una serie di conseguenze concentriche e ramificate, apparentemente caotiche, nelle quali gorgoglierà finalmente scatenata la vita.

Eppure, anche tenendosi al di qua dei fatti occorsi in questa seconda parte, i Dom- riescono a insufflare tutto ciò già in quei primi momenti richiamati, attraverso i dettagli: la preparazione per la partenza verso il pic-nic, il percorso, il pranzo consumato, i microscopici e stucchevoli condensati di vita che mantengono umane le fanciulle, un sonetto letto, i biglietti di San Valentino, le mussole, i pizzi, i copricapi estivi. E poi la partenza delle quattro ragazze verso la roccia, l’incomprensibile atto dell’istitutrice di seguirle, tutta la carica di tensione, di feroce, taciuto desiderio (omo)erotico, l’alone di mistero che copre prima la viscerale confidenza di un nugolo di adolescenti compresse le une contro le altre – tematiche di ascendenza simbolista, generatrici, negli stessi anni, di opere come il “Gelsomino notturno” pascoliano – poi l’improvvisa l’assenza, la privazione stavolta reale, non più sociale, dei corpi. Quando un atto, come si diceva, palpabile e insieme non verificabile, un non-esserci-più, apre le porte dell’abisso.

Ed è per quella particolare situazione dello “stare” nella quale lo spettatore si trova all’esordio della narrazione che la narrazione riesce a penetrare in un pubblico così indifeso, tenuto negli sguardi tra le attrici, così sospeso da essere a un tempo vulnerabile e completamente vivo, presente, attivo.
Tale è l’importanza della comunità creata nella trasmissione del racconto, tale è il peso specifico che esso può sviluppare se calato in una comunità.

Se c’è un altro lavoro che, a similitudine, vogliamo convocare per leggere da un secondo scorcio la temperatura di questa esperienza (una temperatura che si estende dall’essere testimonio corporeo di una febbre solitaria a registrazione climatica di un ambiente) è “Dream” di Alessandro Sciarroni, la durational performance nella quale l’obiettivo sembrava essere non la comunicazione di un qualcosa, ma l’accoglienza in uno spazio che, quasi paradossalmente, si creava soltanto nel momento in cui la presenza di tutti e tutte, performer e “pubblico”, diveniva consapevole e “politicamente” presente.
Lì Sciarroni dimostrava al pubblico e ai suoi stessi performer (tra i quali vi era Sirna) la possibilità di creare un ambiente significante senza significato; qui Dom- prova a rilanciare, a operare su un simile ambiente con una storia.
Come il toro di Chiara Guidi che percuote il suolo, e i bambini, trascinati in quel vivido sogno non possono esimersi dal saperlo vero e capace di tutto, così ogni appartenente a questa comunità sperimenta su di sé il palpito dell’abisso che si apre davvero davanti a lui, a noi.
Il tutto è giocato portando a un ulteriore grado di perfezione la gestione di quelle due dinamiche che da sempre Sirna e Delogu sanno maneggiare, quella che dei confini fisici del paesaggio sottoposto allo sguardo e quella che forza i limiti della drammaturgia, lasciando uno spiraglio all’ingresso della mano del caso.

È infatti vero che sfondano continuamente la prospettiva, sin dai tempi di “L’uomo che cammina”, nel quale non si smetteva di ampliare il paesaggio, ma sanno anche ricondurla all’alzo-zero del circolo e delle quattro mura. E, drammaturgicamente, cosa era costruito nelle precedenti performance itineranti, cosa era invece un regalo della casualità che favorisce il viaggiatore? Anche ora, chi ha appena preso la parola, non era con noi, fino a pochi attimi, a bere vino, chiacchierando del più e del meno? Non starà per caso raccontando un fatto suo, privato? Nello “stare” che si oppone al tradizionale “andare” sperimentato perlopiù finora, non rinunciano a questo duplice delicato gioco di ambiguità.

La conclusione di “Darkness pic-nic” è il ritorno (“Buio”). Un ritorno che ci chiarisce una volta di più quanto poco il pubblico è disposto a “stare” davvero nella scia delle fini, quanta urgenza di scappare ci prenda, quanto terrore che, restando in silenzio, ci troveremmo appiccicate addosso le tracce ancora fresche di quanto accaduto. La camminata verso il luogo di partenza, il teatro, è probabilmente, nelle intenzioni, una camera di decompressione e insieme una sfida alla paura: dalla vallata si torna al Quarticciolo attraverso un più lungo percorso nel parco. L’oscurità è ormai scesa, si va quasi a tentoni. I più parlano, cosa abbiamo visto, programmano cene e pranzi, luglio incombe, con le sue partenze – mentre noi, ancora vulnerabili, si vorrebbe rimanere in quegli sguardi tesi, nelle mani delle fanciulle alle quali cui è consentito, ma solo fuori del centro abitato, di liberarsi dei guanti, nel taglio della torta a forma di cuore, nei bigliettini in rima per San Valentino, nel subito terrore al levarsi fragoroso di nugoli di pappagalli – tienici con te Marion, Irma, e tu, nel gesto di sfilarsi scarpe e calze per ascendere la misteriosa montagna per i ripidi pinnacoli, Miranda.
Ma, come dice proprio lei, il cigno, la più perfetta delle fanciulle scomparse ad Hanging Rock, “c’è sempre un momento giusto per nascere e anche per morire”.
Questo, in qualche modo, doveva essere il nostro.

Darkness pic-nic
Progetto site-specific per FuoriProgramma 2024
a cura di DOM-
liberamente ispirato al film Picnic ad Hanging Rock di Peter Weir
allestimenti e regia Leonardo Delogu, Valerio Sirna
collaborazione alla creazione e performer Chiara Aru, Violetta Cottini, Filippo Gonnella, Carlotta Sofia Grassi, Sara Saccotelli
conversazioni con Daniela Angelucci, Felice Cimatti, Emanuela Freire
cura del cibo Maria Rocco, Edoardo Fabbri
sculture Mattia Cleri Polidori
supporto tecnico Mael Veisse
mastering e missaggio Giacomo Del Colle Lauri Volpi
produzione Fuori Programma, Fuori Margine, DOM-
Photo Courtesy Fuori Programma Festival/Ph Giuseppe Follacchio

Durata: 3 ore

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