Darwin inconsolabile: le anime in pena di Lucia Calamaro, fra brancolamento e sghignazzi

Darwin inconsolabile (photo: Laura Farneti)
Darwin inconsolabile (photo: Laura Farneti)

«Cioè, Simona e qualche ostetrica hanno letto un manoscritto originale e inedito di Darwin?»: fuori di sé, Riccardo Goretti, “pingue” maestro elementare, forse più disperato che incredulo, domanda alle due sorelle a metà spettacolo.
La battuta, piazzata circa a metà dello spettacolo, può rendere conto del clima che si respira al Teatro India durante “Darwin inconsolabile” di Lucia Calamaro, secondo dei tre lavori dell’autrice e regista romana in scena nella sua città in queste settimane, tra l’India e il teatro del Lido di Ostia.

Si inizia in un supermercato (nessuna scenografia, due carrelli colmi di acquisti), già in medias res, gli animi sono esasperati, si è appena partiti e gocce su gocce fanno subito traboccare il vaso.
Uno dopo l’altro i tre fratelli, Goretti, Simona Senzacqua e Gioia Salvatori, escono, fuggono. Rimane Maria Grazia Sughi, madre artista visivo-performativa che progetta una tanatosi, finta morte praticata da alcuni animali per difendersi dai predatori, allo scopo di riavvicinare i figli a sé. È una morte imminente di crepacuore, quella che annuncia, a cui quasi nessuno sembra credere veramente, tranne Gioia, vittima di un rapporto avvinghiato e irrisolto con la madre. Il tutto sarà inscenato in una specie di scarna e irrituale cerimonia d’addio nella seconda e più lunga scena, in casa, accanto alle opere d’arte della sua vita, piano piano esposte dai figli presso il fondale, in un’ultima, definitiva “personale”.

La battuta citata, limite estremo di una trama inesistente nei fatti – se si escludono quelli del passato, e un finale ampiamente previsto – suggerisce a quale livello di caricatura il segno del testo venga spinto da Calamaro, un sopra-le-righe tutto risolto nella parola, piantato nel pieno della nevrosi occidentale borghese contemporanea.
Le più varie, e non di rado lambiccate, teorie ambientaliste/ecologiste (prospettivismo amazzonico, interspecismo), antropologiche (si cita Donna Haraway, Eduardo Viveiros do Castro…) e confuse illusioni messianiche pseudo-darwiniane attraverso Borges, attraverso a sua volta Bioy Casares, sono rimpallate dai personaggi, assetati di una linea di condotta intellettuale, di una weltanshauung purchessia, per radicare la propria ormai quasi indimostrabile, impalpabile esistenza in un mondo senza direzione leggibile, senza ideologie ordinatrici, affollato di voci.

I fratelli si scontrano tra di loro, ciascuno scaricando sugli altri i propri tormenti esistenziali, tra cui l’astio per una madre bugiarda e lontana, ricercando nell’altro non la consolazione verso un’infelicità degli affetti e un’impossibilità di centrarsi, ma la supremazia del proprio rachitico concetto e della propria visione dei rapporti, per quanto pencolante. Un’impossibilità di ricomporre in sintesi le tesi e le impostazioni diverse, di venire sia pur affettivamente a patti gli uni con gli altri, che sono ancora più strazianti se si considerano due elementi, il primo formale, il secondo (forse) biografico.

Formalmente, tale tragica difficoltà di presa, tale spaesamento dei personaggi non sono resi da Calamaro con aspre critiche, con burbanzose reprimende o lezioni ex cathedra, né con intimistici ripiegamenti: il testo è orgogliosamente, brutalmente comico – un comico talmente segnato, insistito, pervasivo da disorientare, spinto fino alla battuta, alla battutaccia, al punto da mostrare come lo sghignazzo sia una strategia più che un fine.
Se Goretti biascica senza remore un portoghese maccheronico, se si espone una larga serie sinonimica sulla grassezza, se ci si rivolge al pubblico, anzi peggio alla “signora laggiù” che singhiozza in platea, se non si disdegnano gli ammicchi e “le facce”, se si attua una progressiva e consapevole rinuncia a ogni linearità drammaturgica intesa come affondo, questa è scelta compiuta con consapevolezza, strada percorsa fino alle estreme conseguenze: la frammentarietà, appunto, una rottura della costruzione, che se non giova a tendere il testo, certamente lo tiene vivo, sottoponendolo a scosse ripetute.
Questa fregola di scalzarsi continuamente, di non perdere occasione per deviare da uno sviluppo coerente accettando l’occasione di una divagazione comica per ricomporsi solo nel finale (e chissà se era veramente necessario farlo), è immagine dei nostri tempi, anzi sfrutta la nostra disponibilità a lasciarci distrarre.

Come quei pesci che sfruttano correnti oceaniche per viaggiare migliaia di chilometri senza grandi sforzi, così “Darwin inconsolabile” veleggia sulla insopportabile leggerezza di un teatro di costume, con sfoghi ridanciani per dire il contrario di tutto ciò, per dire l’impossibilità di essere veramente, di scegliersi, di mettersi a fuoco.
L’efficacia del testo è proprio in questo saper fare esplodere, fin dall’inizio, la sua e la nostra saturazione.

Il secondo elemento notevole, in relazione alla famigerata “solitudine e incomunicabilità”, all’impossibilità di conquistare una qualunque forma di evoluzione personale e interpersonale di fronte a forma e contenuti disfatti, è la delineazione di un terzetto di personaggi i quali, benché latori di istanze diverse, si dimostrano nella qualità della nevrosi non solo figli della stessa madre, ma scorci diversi di un’unica tormentata personalità, che non fa pace nemmeno con sé stessa (che sia la stessa Lucia Calamaro, con il suo citazionismo usato a mo’ di appiglio, con i suoi cedimenti a forme di lirismo minimo, sfogato nei lampi di costrutti verbali minimi, sintagmatici, denotativi?).

In “Darwin inconsolabile”, lavoro di parola tenuto in scena da un quartetto di attori pienamente consapevole della chiave in cui cantare, persino l’utopia di un futuro, la previsione pseudoscientifica di un post-umano buono, in cui a governare sia una creatura superiore all’uomo non per razionalità ma per un’organicamente massiccia capacità di amare, persino questa salvezza si rivela una beata illusione, quando il vagheggiato vangelo inedito segreto darwiniano, sequel dell'”Origine delle specie”, dato in pasto a un’accolita di ostetriche, si rivela nient’altro che un apocrifo.
Bugia bianca, a fin di bene, quel dono fatto anni prima alla piccola Simona in lacrime, forse unico vero atto d’amore della madre, meccanico, senza pretese, risarcimento di una delusione infantile, tenuto in piedi negli anni con la perseveranza sprezzante di un’habitué della menzogna. Involontaria ultima luce dell’avvenire, che la stessa creatrice soffoca altrettanto inconsapevolmente, appena prima di andarsene per sempre.
Al Teatro India fino al 23 gennaio.

Darwin inconsolabile (un pezzo per anime in pena)
scritto e diretto da Lucia Calamaro
con Riccardo Goretti, Gioia Salvatori, Simona Senzacqua, Maria Grazia Sughi
assistente alla regia Paola Atzeni
disegno luci Stefano Damasco
luci Stefano Damasco
foto di Laura Farneti
produzione Sardegna Teatro, Teatro di Roma – Teatro Nazionale e CSS Teatro stabile di innovazione del FVG
con il sostegno di Spoleto Festival dei Due Mondi

durata: 1h 30′
applausi del pubblico: 2’ 30’’

Visto a Roma, Teatro India, il 15 gennaio 2022

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