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La “De/Frammentazione” di Servomuto Teatro, un cerebrale gioco teatrale

De/Frammentazione

De/Frammentazione

La drammaturgia di Fabio Pisano propone “una storia di impossibilità” metaforica e grottesca. Alla regia Michele Segreto

Dramma esistenziale dalla costruzione chirurgica, matematica applicata alle relazioni umane, chimica dei corpi che obbedisce alla fisica degli elementi. “De/Frammentazione”, drammaturgia di Fabio Pisano, è – come recita il suo sottotitolo – “dramma assoluto con incursioni a latere di io epico ovvero una storia di impossibilità”. E la sua dichiarata impossibilità risiede nel suo sottrarsi al secolo per vivere in una sorta di mondo delle idee, in cui si fa rappresentazione di concetti assoluti attraverso figure archetipiche che incarnano essenze. Essenze che prendono corpo sulla scena dando vita a una sorta di destrutturazione formale dei ruoli volta a ricondurre i personaggi ad un’astrazione funzionale a farne mediatori metaforici.

È come se, in una costruzione meccanica di precisione, ogni elemento fosse riconducibile ad una sorta di congegno matematico nel quale il tempo e lo spazio sono parametri variabili dentro ai quali si muovono personaggi inseriti in quel sistema a fungere da gangli d’un ingranaggio. Questi personaggi si chiamano 0 e 1 (come gli elementi che compongono il sistema binario), e a loro s’affianca sulla scena la figura di “moglie” (consorte di 1), tutti depersonalizzati dalla mancanza di un nome ma non per questo spersonalizzati. Insieme a loro, da un lato del lungo tavolo che occupa la scena nella sua larghezza per tutto il tempo della rappresentazione, una quarta figura – silente aiuto regia in scena –, che agisce da incarnazione del tempo e dello spazio cadenzandone la scansione mediante cartelli che, inquadrati, si proiettano sul fondale.

Si entra in sala che gli attori (Francesca Borriero, Michele Magni e Roberto Marinelli) sono già sul palco, seduti al lungo tavolo che lo occupa nella sua ampiezza. Sono fissi davanti a noi, in attesa dei comandi di scena che verranno progressivamente impartiti da un didascalista, ruolo che viene palleggiato fra i tre interpreti a seconda delle circostanze dell’azione scenica.

La storia che ci raccontano possiede una apparente quantunque grottesca linearità, sfalsata nella sua narrazione da rimandi e antefatti, montata in un andirivieni di tempi ed eventi che contribuiscono a infondere pathos alla vicenda. D’altronde, il gusto del paradosso attraversa e permea l’intera scrittura, basti pensare che 1 è contemporaneamente sia un accorato serial killer che un ostetrico in attesa di occupazione, ponendosi quindi – un po’ per scelta, un po’ per vocazione, molto per necessità – ai due punti estremi della vita: il nascere e il morire. 1 e 0 sono amici, e tra loro due e la moglie di 1 si innescherà un ménage che finirà per sparigliarne l’altrimenti solido rapporto.

Il tempo: “un unico tempo diviso in tante percezioni”, un tempo la cui unità – frammentata – non si sviluppa nel ‘qui e ora’, ma viene dichiarato (anche) visivamente che ‘qui è ora’, così stabilendo, con l’imposizione di un accento, non solo la contemporaneità dell’hic et nunc della rappresentazione, ma anche l’assertività soggettiva di ciò che si rappresenta, come se in quella affermazione fosse contenuta la pluralità dei punti di vista d’ogni personaggio.
Il sistema binario e la deframmentazione, elementi drammaturgici fondanti, sono codici matematici e informatici che ci danno programmaticamente la misura di quanto e come quest’opera voglia scindere quell’atomo chiamato essere umano, scandagliarne dinamiche e meccanismi, e farlo mediante l’asepsi di ferri sterilizzati con cui maneggiare la materia.

Su tutto ciò s’innerva un dichiarato e scoperto gioco teatrale che, mentre afferma che “l’immaginazione è tutto” (in tal modo demandando a noi spettatori una parte attiva, ad esempio suggerendo di figurarci mentalmente quelle azioni che in assito vengono dichiarate e non effettuate), più volte ricorre a sintagmi metateatrali, ricordando e ribadendo il gioco giocato della finzione. La metateatralità ricorre insistente (“questo è un teatro”, ma più in generale tutta una serie di indicazioni, per lo più incarnate dalla variabile figura del didascalista), e dà vita anche a situazioni teatralmente efficaci (per esempio l’urlo lieve, il respiro ansimante, l’urlo feroce, evocati ma non emessi emessi durante la scena del parto), le quali concorrono a strutturare una dinamica scenico-drammaturgica che si fa apprezzare per l’acume della propria costruzione.

La tensione drammaturgica attraversa la scena in un crescendo che progredisce parallelamente al dipanarsi della vicenda, ma è anche una tensione intrinseca al linguaggio, alla sua cifra espressiva paradossale, intimamente grottesca. Ed è proprio il linguaggio l’asse portante dello spettacolo, con il suo gioco parossistico e le sue trovate inventive che si susseguono nello svolgersi di una paradossale vicenda normale, in “una storia di impossibilità”, certo (o forse), come lo è la realizzazione dei soggetti, che verso l’epilogo ci appare nella sua ineluttabile inattuabilità allorché non si riesce a pronunciare la parola “felicità”, un po’ come accade a Luca Cupiello nel “Natale” eduardiano, che non riesce a pronunciare senza farfugliarle le parole “ci riuniamo” in un’altra ben nota deframmentazione, quella della famiglia creduta presepiale e invece sgretolantesi sotto i suoi occhi miopi d’inconsapevolezza.

Nella valutazione complessiva di questo spettacolo messo in scena da Servomuto Teatro vanno contemperati due aspetti: da un lato la bontà della scrittura e del congegno drammaturgico; dall’altro però è come se ciò che arrivasse dal palco alla platea fosse il risultato calcolato di un prodotto formalmente ben fatto, ben costruito, ben confezionato, con al proprio interno delle ottime intuizioni, frutto di un lavoro cerebrale raffinato, ma nel quale solo a tratti e marginalmente pare risuonare una più autentica vibrazione capace di farci avvertire come possibilmente vero ciò che s’attesta invece sulle corde di un verosimile giocato in punta di paradosso. La stessa regia di Michele Segreto opera una scelta sostanzialmente ‘filologica’ che, pur discostandosi in qualche passaggio dalla scrittura drammaturgica, ne segue le intenzioni.

Quel che ci si porta via dalla visone di “De/Frammentazione” è la sensazione di una premessa drammaturgica e scenica di qualcosa che è ancora in cammino, in un percorso che, se formalmente denota compiutezza e competenza, vede una scintilla di talento che offre al momento il brillio di quella favilla che ancora non è ma che potrebbe diventare se alla cerebralità dell’approccio si riuscirà ad accompagnare con maggiore evidenza il risonante palpito di un’anima che pulsa.

DE/FRAMMENTAZIONE
Dramma Assoluto con Incursioni a Latere di Io Epico, ovvero UNA STORIA DI IMPOSSIBILITÀ
drammaturgia Fabio Pisano
regia Michele Segreto
con Francesca Borriero, Michele Magni, Roberto Marinelli
assistente alla regia Irene Latronico
costumi Alessandra Faienza
light design Martino Minzoni
produzione servomutoTeatro e Liberaimago
con il sostegno di AMAT – Associazione Marchigiana Attività Teatrali
in collaborazione con RAM – Residenze Artistiche Marchigiane
progetto promosso da MiC e Regione Marche
con il supporto del progetto di residenza artistica Teatro Le Forche – Futuro Prossimo Venturo 2024
con il sostengo di Circuito CLAPS/IntercettAzioni
si ringrazia NEST – Napoli Est Teatro

durata: 1h 10’
applausi del pubblico: 2’ 40’’

Visto a Napoli, Teatro Piccolo Bellini, il 12 novembre 2024

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