De Living. Ersan Mondtag arriva a Romaeuropa

De Living (photo: Hupfeld)
De Living (photo: Hupfeld)

Due sorelle, due gemelle, due sosia, due volte la stessa persona, la stessa persona prima e dopo.
Ci sono due “living room“, pressocché identiche, che si dividono la scena del Teatro Vascello di Roma. Una carta da parati con fiori di ciliegio, come in un Giappone occidentale, dei mobili sproporzionati e un pavimento a scacchi obliqui. Una testa di cavallo, anche, ma solo da una parte, sembra una pedina monca di quegli scacchi.

Un’attesa infinita precede l’inizio dell’azione, se di azione si può parlare. Un cinguettio di campagna riempie l’aria, più che dalle gabbiette per uccelli sul fondo della scena sembra provenire da un impensabile “fuori”. Ci si immagina una realtà esterna che, pur non essendo visibile, influenza e impone un ordine superiore che non lascia scampo.
Una donna seduta al tavolo della cucina, vestita camaleonticamente come la sua carta da parati, ha davanti a sé un bicchiere e una bottiglia. Medita il suicidio. Lo sappiamo, troppo presto, dal programma di sala. Beve, e ogni volta che poggia il bicchiere sul tavolo un’eco spaventosa riecheggia nella sala.
Una serie di colpi di tosse scuote il vuoto d’aria di una sala silenziosissima ma, dopo tanto tempo, con tutti i posti occupati.
Una busta rossa abbandonata sul tavolo sembra il motivo di questa fermezza tombale.

Dallo sguardo della donna verso di noi inizia un cammino in cerchio lentissimo ma inesorabile, che la porterà a infilare la testa nel forno mentre l’aria, la stessa aria che noi spettatori stiamo respirando, si fa a poco a poco densa di gas. Un odore invasivo ci trascina prepotente dentro un dolore che non possiamo capire fino in fondo, mentre il fastidio per questa violazione sensoriale strattona, e forse inibisce, forse aumenta, la partecipazione emotiva pura alla vicenda che sta accadendo davanti ai nostri occhi.
Il sibilo del forno acceso diventa un elettrocardiogramma piatto. Questa morte che ci si propone davanti è fredda e insensata.
Poi, dall’altra parte della scena, uno spicchio di vita ricomincia da capo.

Come in un film, vediamo in split screen la causa e l’effetto allo stesso tempo. La donna a sinistra, quella del prima, appare come un’operaia a fine turno, sentiamo una sirena che ricorda un segnale di coprifuoco. Al di là della porta un numero che, più che ad un civico, assomiglia ai tatuaggi seriali dei campi di concentramento. Salta agli occhi quel ritratto del re belga Leopoldo II, emblema della storia coloniale del Congo, appeso a un muro colorato come un’effigie obbligata, endemica di uno stato dittatore. E allora anche quella testa di cavallo richiama una delle statue del Re recentemente vandalizzate dalla protesta del Black Lives Matter.

Le gemelle Doris e Nathalie Bokongo Nkumu – in arte Les Mybalés –, protagoniste dello spettacolo arrivato al Romaeuropa Festival, sono performer di origini congolesi esponenti della scena hip-hop belga, perfette rappresentanti di una generazione che ha riscattato il proprio passato dal razzismo strutturale. Ma sullo sfondo rimane comunque la violenza della Storia, con quelle tracce di colonialismo i cui effetti continuano a mietere corpi e vite. E su questo vuol (anche) farci riflettere Ersan Mondtag, ritenuto il regista tedesco più importante della sua generazione, e lo fa senza bisogno di nessuna parola: “Ho sperimentato che la comunicazione con il pubblico è in qualche modo più motivata e più libera quando non si parla – aveva dichiarato il regista in un’intervista di Anna Bandettini in occasione della tournée mancata a causa della pandemia – E’ un processo interessante, perché in scena non c’è una vera storia, o una dichiarazione d’intenti, ma questa è creata dallo spettatore. Qui per esempio, attraverso una serie di dettagli nella stanza, si può ricostruire in vari modi la vita della protagonista”.

La donna di sinistra compie una serie di gesti di una routine apparentemente inossidabile. Se stessimo guardando lei come prima protagonista dello spettacolo, quasi niente farebbe pensare che questa donna finirà con la testa nel forno. Poggia la borsa, fa una doccia, sceglie un vestito e si trucca come se dovesse uscire, mangia. La dispensa è un quadro di pop art: decine e decine di barattoli di tomato soup della Campbell, tutti uguali, tutti stipati come in un deposito. La busta rossa, la stessa di cui sopra, sembra qui un dettaglio tralasciabile. A poco a poco la prima donna ripercorre a ritroso le sue azioni, la pellicola si riavvolge e rimette a sync le due vite ‘‘alternative“.

Poi un boato e un’esplosione, fumo e sirene, barattoli che cadono come molotov. C’è una guerra? Un attacco? La donna a sinistra cade al suolo. Allora, forse, non era la stessa che abbiamo visto morire a destra.
Il lato destro della scena è il prima e il dopo, un destino dichiarato e uno spettro incombente.
L’operaia scavalca il limite spazio-temporale e ricompare sull’uscio di destra. Il numero sul muro non è lo stesso, le due donne non sono la stessa persona, o per lo meno, non in questa realtà. Una cerca di salvare l’altra, non sappiamo se ci riuscirà o se ha solo spostato il corpo e chiuso il forno per salvare sé stessa.
La busta rossa la fa esplodere in una risata distonica, ed è forse il momento più assurdo ed emotivamente sconquassante della performance. Assurdo quanto il fatto che questo ghigno risulti più drammatico della morte stessa.

“De Living” è un film distopico e realissimo al medesimo tempo, un quadro di vita che ha poco da spartire con la drammaturgia convenzionale, e in cui movimenti e corpi evocano storie. In fondo Mondtag, regista di punta della nuova scena berlinese, ha speso la sua giovanissima e prolifica carriera sempre a cavallo fra teatro, visual art, musica e sperimentazione. E per questo lavoro si è avvalso della drammaturgia di Eva-Maria Bertschy, collaboratrice di Milo Rau, che in questo caso entra nella produzione stessa dello spettacolo con il suo NTGent.

Non c’è un testo nel senso proprio del termine, ma il discorso scenico è una partitura polifonica fittissima, e lo spettatore è chiamato a fare uno sforzo superiore rispetto alla semplice visione attenta. Più che il senso di morte e di fine, s’intravvede al termine della performance un’aria lontana di possibilità, ma è come se fosse figlia di uno sforzo troppo grande che il pubblico deve fare per andare oltre un’atmosfera filmica (che banalmente potremmo definire lynchana), un oltre in cui trovare il poetico, il nodo ultimo di senso e spinta.
E’ possibile tornare indietro? Una realtà diversa da quella decisa dal destino può esistere? E se scavalcando un limite potessimo stravolgere il finale?

DE LIVING
Regia: Ersan Mondtag
Performer: Doris e Nathalie Bokongo Nkumu, hip-hop dancers conosciute come Les Mybalés
Compositore e Sound Designer: Gerrit Netzlaff
Voce Radio: Simon Turner
Drammaturgia: Eva-Maria Bertschy
Coach per la recitazione: Oscar Van Rompay
Coach per il movimento: Stella Höttler
Consulenza scientifica: Benigna Gerisch
Scena e costumi: Ersan Mondtag
Disegno Luci: Dennis Diels
Assistente alla regia: Liesbeth Standaert
Gestione della produzione: Sebastiaan Peeters
Produzione tecnica: Oliver Houttekiet
Tecnica del suono: Bart Meeusen, Raf Willems
Tecnica luci: Eva Dermul
Pianificazione scena: Tony Morawe, Joris Soenen
Scena e props: Thierry Dhondt, Pierre Keulemans , Flup Beys, Michiel Moors, Freddy Schoonackers
Pittura della scena: Luc Goedertier , Eva Devriendt , Kachiri Faes, Joris Soenen
Creazione dei costumi: Isabelle Stepman, An De Mol, Mieke Vander Cruyssen
Coproduttori: La Villette (Paris), Theaterfestival Boulevard (‘s Hertogenbosch), Kunstenfestivaldesarts (Brussels), HAU Hebbel am Ufer (Berlin)
Questa produzione è stata realizzata con il supporto di: The Belgian Tax Shelter

durata: 1h 15′
applausi del pubblico: 4′

Visto a Roma, Romaeuropa Festival, il 17 ottobre 2021

 

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