Erano arrivate per lo più dall’Italia e dall’est Europa. Erano donne, molte giovanissime, anche 12 e 13 anni, pronte ad affrontare turni di 14 ore al giorno per una settimana lavorativa che andava dalle 60 alle 72 ore: “Madonne addolorate senza assunzione al cielo, ma solo un lavoro a cottimo”.
Erano venute in America a ‘cercar fortuna’. E a New York avevano trovato lavoro alla Triangle Shirtwaist Company, la fabbrica che all’epoca (era l’inizio del Novecento) produceva le camicette più alla moda.
Per 146 di loro, il 25 marzo 1911 fu l’ultimo giorno di lavoro. Forse una scintilla delle lampade a gas che illuminavano le cucitrici arrivò a una camicetta. Bastarono 18 minuti, avanzi di tessuto ammucchiati e rocchetti di filo per causare un incendio che, partito dall’ottavo piano dell’edificio che ospitava la fabbrica, non lasciò scampo a 146 operai/e, chiusi a chiave lì dentro per paura che rubassero o facessero troppe pause. 62 di loro morirono lanciandosi dalle finestre, non essendoci altre vie di fuga. Ragazze in fiamme che, tenendosi per mano, si gettarono dalle finestre e finirono sul selciato.
L’incendio della Triangle fu il più grave incidente industriale della storia di New York. Ma fu anche la scintilla per una forte protesta. L’evento ebbe infatti una importante eco sociale e politica, a seguito della quale furono varate nuove leggi sulla sicurezza sul lavoro, mentre crebbero notevolmente le adesioni alla International Ladies’ Garment Workers’ Union, oggi uno dei più importanti sindacati degli Stati Uniti.
E’ da questo tragico episodio che Laura Sicignano, regista, autrice e organizzatrice teatrale, alla direzione del Teatro Cargo di Genova, ha tratto lo spettacolo “Scintille”, che ha debuttato a luglio al festival di Borgio Verezzi e sarà replicato questo sabato, 15 settembre, a Prosa et Labora, festival dedicato a una riflessione sul lavoro (soprattutto nel suo lato più debole e meno tutelato), che si terrà allo Spazio Mil di Sesto San Giovanni (MI).
Tua la regia di questo spettacolo con protagonista assoluta Laura Curino, ma tuo è anche il testo. Come mai hai scelto proprio questa vicenda?
E’ successo parlando con un professore di storia (Nando Fasce, dell’università di Genova), che conosce il mio interesse per la storia delle donne e delle persone, quelle dimenticate dalla Grande Storia.
E’ tutto così effimero e casuale, il teatro come la vita. Basta una scintilla per distruggere 146 vite, di cui non rimarrà che un mucchio di cenere ed un elenco di nomi e cognomi. Quello che posso e so fare io è restituire la vita per un attimo, attraverso la memoria effimera di un gesto teatrale, a queste giovanissime operaie che erano arrivate da paesi lontani e dopo viaggi e vite difficili, in America speravano di realizzare i propri sogni. Hanno lottato duramente e meritano almeno una testimonianza.
Com’è avvenuta la scelta di Laura Curino come interprete?
Conosco Laura da molti anni. Mi è sembrato naturale che fosse lei ad interpretare una storia di lavoro e di donne, in cui un’unica interprete è in grado di dare voce ad un coro di figure femminili. Non è però uno spettacolo di narrazione: Laura non porta in scena se stessa che racconta, come ha fatto in molti suoi recenti lavori. Qui Laura è un’attrice che interpreta tanti personaggi. La sua potenza, la sua concretezza, la sua passione e il suo eclettismo hanno fatto sì che pensassi immediatamente a lei, che per altro ha accettato subito.
Anche in riferimento alle tematiche che affronterà il festival Prosa et Labora, tra precarietà, crisi e tagli generalizzati, cos’è più importante proteggere, oggi, del lavoro in genere?
Del lavoro oggi bisogna proteggere la dignità. Il lavoro non è solo uno strumento di sopravvivenza. Il lavoro è un modo in cui la persona può realizzarsi nella sua completezza. L’amore e il rispetto che ciascuno può decidere di mettere nel proprio lavoro è una possibilità di crescita, qualunque sia il lavoro che si svolge. Penso alla perizia di certi gesti antichi o moderni di mestieri manuali, alla solidarietà che si crea in una squadra che realizza un progetto, alla soddisfazione per avere compiuto un servizio. Questo può accadere in ogni contesto lavorativo.
E in particolare, tu che lo vivi da diverse angolazioni, cosa credi occorrerebbe preservare maggiormente del lavoro in ambito artistico?
Chi sceglie un lavoro in ambito artistico in Italia sceglie la precarietà e lo deve sapere. Lavorare in questo settore è un grande privilegio, ma anche una scelta di sacrificio e dedizione. Credo che ciò che occorra preservare sia la libertà. Con questo intendo la libertà da mode e tendenze, potentati e mercato. Può essere molto rischioso, ma diversamente non capisco che senso abbia questo lavoro.
Hai già raccontato storie di donne affrontando altre epoche storiche, come la Seconda Guerra Mondiale con “Donne in guerra”. E spesso fai ‘squadra’ con altre donne. Senti queste tematiche in qualche modo sociali e di genere quelle a te più vicine?
Non so perché scelgo alcune tematiche piuttosto che altre. Sono come innamoramenti. Come puoi spiegarli? A volte ami qualcosa che ti rispecchia, altre qualcosa che non conosci e vuoi indagare. La guerra, il fuoco, la ribellione, le donne, la storia, le vittime sacrificali che una società sempre richiede, la cultura cattolica che anche per chi non crede è radicata in noi, sono temi ricorrenti, ma non vorrei essere riconoscibile in una linea perché non sarebbe vero. Sto cercando. Ogni volta ricomincio da capo con persone e storie nuove.
“Scintille” ha ora davanti a sé la tournée. Dove puoi già dare appuntamento ai futuri spettatori?
Dopo Sesto San Giovanni questo sabato, dal 23 al 28 ottobre saremo a Napoli, al Nuovo Teatro Nuovo, mentre dal 6 all’11 novembre allo Stabile di Genova e il 16 novembre, sempre a Genova, ma al Teatro Cargo. Dal 20 al 23 dicembre a Salerno, per poi approdare, tra febbraio e marzo, a Cossato, Prato, Lecco, Rivoli (TO), San Marino, Siena, Omegna e, dal 2 al 7 aprile, al Teatro della Cooperativa di Milano.
Da animatrice del Teatro Cargo, raccontaci com’è fare teatro a Genova.
Fare teatro a Genova da un lato è difficile perché esiste da decenni una situazione di colossi consolidati. Ma personalmente ho avuto il privilegio di collaborare quasi con tutti i teatri cittadini, con ottima soddisfazione reciproca. Il pubblico è appassionato, ma apparentemente freddo e difficile, non si lascia ingannare da facili mode. Io ho la fortuna di gestire due sale molto belle, una su una spiaggia, l’altra un teatro del Settecento. La crisi economica è gravissima e si naviga a vista. Ma il Cargo è nato funambolo e quindi alle difficoltà estreme è abituato. Vedremo se riusciremo a sopravvivere. Sicuramente non ci arrenderemo facilmente.
Quali i progetti futuri?
Devo portare a termine un lavoro molto appassionante con un gruppo di minori stranieri, arrivati da soli in Italia da Africa e Afghanistan e attualmente esuli politici a Genova. Sono adolescenti per lo più analfabeti, islamici e con vissuti complicatissimi. Abbiamo lavorato sull’Odissea per parlare di loro e per cercare di comunicare e conoscerci: loro maschi, giovani, provenienti da culture così lontane, io e l’attrice che mi ha aiutato, donne, adulte e occidentali. Uno scontro culturale. C’è chi fa tanti discorsi sull’integrazione. Noi abbiamo sperimentato cosa significa attraverso il teatro. Andremo in scena. E’ un’esperienza tra le più forti della mia vita; per i ragazzi è una sfida molto grande e che non dimenticheranno mai. Il pubblico lo sentirà con molta emotività. Suscitare delle forti emozioni è quello che cerco di fare sempre, senza usare mezzucci.