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Dentro un risveglio. Intervista a Sara Bertelà

Una specie di Alaska|Sara Bertelà in Una specie di Alaska

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Sara Bertelà in Una specie di Alaska
Sara Bertelà in Una specie di Alaska (photo: Paola Coletti)
Non un palco ma una stanza; non una scenografia ma gli elementi di arredo “disponibili sul luogo”.
Fu questa l’idea, nata nel 2009 a Portovenere, quando Valerio Binasco pensò di allestire “Una specie di Alaska”, commedia di Harold Pinter ispirata a “Risvegli“, opera composta dal medico Oliver Sacks a partire dai risvegli dei suoi pazienti colpiti da coma letargico.

«L’aspetto più stimolante per il pubblico sta nel fatto che l’inizio della storia coincide con l’apertura degli occhi di Deborah dopo 29 anni di coma – racconta Sara Bertelà, l’attrice che in questi giorni veste i panni della protagonista al Teatro Libero di Milano (ancora stasera e domani) – La prima ora della sua vita accade davanti agli spettatori, viene vissuta insieme a loro, oltre che insieme agli altri due personaggi che sono il dottore e la sorella Pauline».
Gli spettatori sono infatti volutamente pochi, una cinquantina al massimo, in modo da avvicinarli il più possibile al palco. «Debuttammo in una sala di ostello, e una luce al neon, semplicissima ed estrema, illuminava tutti, attori e pubblico» racconta la protagonista.

Nella versione oggi in teatro (nella scorsa stagione anche al Teatro Franco Parenti), il pubblico non è più illuminato, ma il rapporto ravvicinato con lo sguardo della protagonista lo coinvolge ugualmente, rendendolo testimone di un evento che non gli dà pace e lo ingloba, emotivamente e spazialmente. Gli occhi di Sara Bertelà sdraiata nel letto di Deborah sono immensi e rappresentano da soli tutta la scena.

In una sala grande, non potrebbe essere così. Quanto lo spazio determina la messa in scena?
È la scommessa dello spettacolo: avere il primo spettatore a un metro di distanza, creare un rapporto intensissimo che ci costringe all’ascolto del pubblico, del suo respiro. Anche la recitazione non è basata su una regia minuziosa che detta parola per parola o su intenzioni tonali, ma su un costante rapporto con la propria interiorità e la storia. Ogni sera si verificano delle differenze pur rispettando le indicazioni registiche, che sono rigorose quanto le didascalie di Pinter: nelle pause, si crea l’accadimento della serata. Non si recita ma si gioca con Pinter: si entra nella sua partitura per interpretare al meglio il suo pensiero.

A questo proposito, il dottore, che rimane dall’inizio alla fine così enigmatico e sospeso tanto in lettura quanto nell’interpretazione offerta agli spettatori, è proprio un esempio di rispetto del testo: è un personaggio che rimane a disposizione degli altri personaggi.
Come dovrebbe essere un medico, appunto. O un uomo, o un padre… Le spettatrici più spesso lo vedono come un uomo che prova un sentimento d’amore per Deborah, altri leggono nel loro rapporto una relazione tra uno scienziato e l’oggetto della sua ricerca scientifica, altri ancora il legame tra un padre e una figlia. È una vicenda tragica dal punto di vista medico e umano.

È proprio questa possibilità di inoltrarsi nella vicenda che crea la sensazione di forte intimità e, allo stesso tempo, concede una grande libertà di reazioni. Una spontaneità che si ritrova nell’interpretazione di Sara, totalmente disinvolta sin dall’inizio, quando il pubblico si sta ancora sedendo e l’attrice è già sdraiata, respira a occhi chiusi e si prepara ad aprirli.
Uso questo momento per rilassarmi e allo stesso tempo concentrarmi: provo a sentirmi un panetto di burro che viene lasciato su una tavola d’estate, sciolgo il corpo pur mantendo l’essenza della concentrazione che mi permette di stare in equilibrio tra il riso e il pianto. Ogni sera cerco di pecorrere questo filo teso tra l’inizio e la fine del percorso che abbiamo da fare io e miei compagni, scoprendo passo dopo passo cosa mi accade. Mi potrei perdere negli occhi dello spettatore della prima fila che percepisco essere così coinvolto da commuovermi io stessa e mettere questa sfumatura nell’interpretazione. Per me, l’attore non deve mai spaventarsi di quello che gli succede: non c’è mai una ricerca di un obiettivo, lo scopo non è piangere o far piangere, ma che il pianto accada.

Una specie di Alaska (photo: Paola Coletti)
Questo modo di recitare diretto, contingente, sempre teso ma senza sovraccarico esteriore, in una parola disinvolto, è la motivazione riconosciuta dal Premio Le Maschere del teatro italiano, che quest’anno hai vinto come miglior attrice protagonista per la commedia “Exit”, di Fausto Paravidino. Quanto è frutto di un lavoro e quanto è innata?
Già quando eravamo insieme a scuola, a Genova, Valerio Binasco mi diceva che la spontaneità, l’improvvisazione costante, la totale mancanza di timore a buttarmi e lasciarmi andare alla mia valanga di sentimenti era la mia particolarità di attrice. Grazie ai buoni maestri che ho avuto, la mia tensione naturale si è adattata in un’attitudine a cercare la verità come attrice. Imitare un modo di donare ti inserisce in una zona di finzione, è teatroso.

È però questa una tendenza che si trova anche in alcuni attori giovanissimi, magari appena diplomati..
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Ci sono scuole che troppo presto ti fanno sentire un artista e ci sono scuole che per tre anni ti portano a conoscerti, e allora può uscirne una figura consapevole che offra un teatro né autoreferenziale né di intrattenimento, ma di accadimento, come ci ha insegnato Carmelo Bene. Il timore oggi è il rischio di una autoreferenzialità creativa per la quale tutti vogliono parlare di sé o ancora peggio mostrare sé, così il gesto creativo è spostato al gesto egocentrico: se tu ti credi più importante del pubblico e se vuoi imporre la tua presenza in quanto singolo essere umano, non può essere interessante. Al contrario, interessante è chi si fa portatore e tramite di una storia, chi si fa arco tra il testo scritto e il pubblico.

Qui nasce la tua naturalezza nel mostrarti in una situazione sgradevole e imbarazzante anche esteticamente?
Certo, perchè da quando ho quattordici anni quello che mi interessa di questo mestiere è raccontare storie. Forse avrei dovuto pensare un po’ di più anche a me stessa, ma questo è un altro discorso.

Qual è oggi il ruolo della critica, di cui tanto si parla?
Il critico allo stesso modo dovrebbe creare interesse, e non rendersi peculiare trovando le migliori parole, le più appropriate, per demolire o esaltare qualcosa. Ben venga che un critico usi termini appropriati, ma non è scrivendo “così bene” che crea interesse, che racconta cosa succede, stando un passo indietro, con umiltà… A proposito, ma voi riuscite a vivere di questo mestiere?

Anche questo è un altro discorso…

Una specie di Alaska
di Harold Pinter
regia: Valerio Binasco
con: Sara Bertelà, Orietta Notari, Nicola Pannelli
scene: Nicolas Bovay
costumi: Catia Castellani
produzione: Nidodiragno

durata: 60′
applausi del pubblico: 1′ 14”

Visto a Milano, Teatro Libero, il 23 settembre 2013


 

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