La parola e la poesia come uniche ancore di salvezza dal mondo che ci circonda
Conoscevamo Gioia Salvatori soprattutto come attrice nei lavori di Luca Ricci e di Giuliano Scarpinato. Ora, in “Di Ridere Di Piangere Di Paura” d’improvviso ce la siamo ritrovata davanti, da sola in scena, in tutta la sua prorompente e sorniona vitalità, coinvolgendoci tra prosa e poesia in una specie di rabbiosa confessione e venata di ironico sarcasmo, innestata nella musica – eseguita dal vivo, in modo cangiante – da Simone Alessandrini.
La regia è curata insieme a Gabriele Paolocà di VicoQuartoMazzini, che la osserva attentamente, facendo attenzione che il tutto non strabordi.
Gioia è infatti un fiume di parole, perché è la parola a farla da padrona: “La parola / la tessitrice di mondi”, come l’artista esplicita fin dall’inizio. E per quasi un’ora, con accortezza studiata, la parola, tra accenti cabarettistici, stand up comedy e riverberi da poetry slam, si rovescia sugli spettatori.
Difficile parlare di uno spettacolo siffatto, che non si traduce mai in avvenimenti da raccontare, e che si affida soprattutto a suggerire, tra prosa e poesia, il proprio essere al mondo con tutto ciò che lo attraversa, ma che comunque, opportunamente, fin dal titolo, si manifesta come lo abbiamo alla fine percepito. Gioia parla infatti di sé stessa, come succede oggi frequentemente dai palchi teatrali, piangendo e ridendo in modo appassionato di ciò che la sua sensibilità vede innanzi a sé, e avendone anche paura. E forse ne ha ben donde, se qua e là ne siamo coinvolti, accorgendoci che sta parlando anche a noi, di noi (“è allarme con questo incerto che si attruppa che si tempesta, si accumula, annuvola tutto il pensabile si fa nuvole nembo cumulo nembo e poi è normale che poi, scroscia, contro di noi”).
Riconosciamo a tratti, infatti, nella sua fatica di vivere anche la nostra, tra sogni disillusi, sempre pronti ad essere sconfitti, e il non riuscire a vivere la propria esistenza quotidiana in modo sereno, perché ogni volta il destino (o più frequentemente gli altri) ci mette alla prova nella necessità di superare sempre nuovi ostacoli. E’ la pioggia, che ricorre frequentemente nello spettacolo, la metafora di questa impossibilità.
E tutto ciò si misura anche con il suo essere femminile: “Una passa metà della vita a introiettare lo sguardo del maschio e l’altra metà a estroiettare lo sguardo del maschio su di sé, il lavoro della donna, dell’essere donna, la donna operaia di sé stessa”.
Gioia Salvatori domina la scena del Kilowatt Festival (dove lo spettacolo ha debuttato), utilizzando pochi oggetti, che le servono per rendere più significante la parola, e mescolando il suo parlare con una moltitudine pensata di dialetti, interfacciandosi anche con il musicista Simone Alessandrini, con il quale sembra colloquiare.
Allo sguardo prosaico del pessimismo che la invade (“quel gomitolo di imperscrutabile che conduce all’etilismo e che fa da sfondo alla domanda sempiterna che riguarda l’essere umano dalla notte dei tempi: chi sono e che cosa ci faccio qui? Che poi è la stessa dall’Uomo di Cromagnon che puoi anche essere contento perché stai su due piedi ma sempre una scimmia resti, con tutto il rispetto per le scimmie perché l’homo sapiens abbiamo visto, meglio le mele”) fa sempre da contraltare la poesia come unico rimedio, possibilità che la conduce perfino a parafrasare il vate d’Annunzio e la sua “Pioggia nel pineto”, oppure a rivalutare almeno i ricordi: “Conservaci il dono intatti gli odori, i ricordi dei giorni sereni, le baruffe per i nonnulla, i baci sotto ai portoni”.
Insomma, per Gioia Salvatori l’unico baluardo che le rimane contro le traversie della vita è ancora lei e sempre lei: la parola. “Mi piace solo la parola la tessitrice di incanti. L’illusione dei mondi che non fa vedere il male, l’orrido che cela gli imbrogli oppure li dichiara che è libera di mutare e costruire ponti e non risolvere enigmi e comporre trabocchetti e con questa gioia di ciò che è imperfetto eppure al perfetto non anela né al concluso, né alla pace (medicina per rinunciatari) con questa gioia può viaggiare il mondo e vivere il lusso della solitudine e la sua lama (ahimè) parimenti. Ma è parola: senti?”.
E’ con questa domanda, con questo lascito verbale, che si accommiata da noi, cercando di captare nel suo amaro, ininterrotto ma ironico solipsismo, qualcosa che possa appartenerci, al di là della capacità indubbia dell’artista di governarla, la parola.
DI RIDERE DI PIANGERE DI PAURA
scritto, diretto e interpretato da Gioia Salvatori
co-regia Gabriele Paolocà
musiche Simone Alessandrini
produzione Infinito Srl
durata: 55’
Visto a San Sebastiano, palestra, il 20 luglio 2023
Prima nazionale