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Gogol’ e Kubrick: riscritture d’autore al NTFI 18

Diario di un pazzo (photo: Sabrina Cirillo)|Barry Lindon (photo: Salvatore Pastore)

Diario di un pazzo (photo: Sabrina Cirillo)|Barry Lindon (photo: Salvatore Pastore)

In questo scorcio conclusivo del Napoli Teatro Festival Italia 2018 bisogna ricordare tre lavori che, con approcci diversi, hanno provato l’operazione della riscrittura di un testo letterario o cinematografico. Oggi parliamo dei primi due, rimandando alle “Scene da un matrimonio” di Bergman per la regia di Končalovskij nei prossimi giorni.

Del “Diario di un pazzo” di Mario Moretti ispirato al racconto di Gogol’ messo in scena da Alessandro Maggi va evidenziata la coerenza nel trattamento attoriale, la perfetta vestizione del personaggio sul corpo e le qualità attoriali di Nando Paone.
Il testo originale, contenuto nei “Racconti di Pietroburgo” insieme anche ai più famosi “Il naso” e “Il cappotto”, è stato mantenuto quasi integrale, i tagli sono limitati e non intervengono in snodi centrali del testo.

La trama racconta di un impiegato di basso grado che scivola lentamente nella pazzia, fino a essere internato in manicomio. Le scelte operate dalla regia rivelano come l’ampia parabola psicologica sia stata leggermente ridotta, ritoccata nell’arco ascendente, cosicché il personaggio è più scopertamente avviato sulla strada verso la follia. Perfettamente a suo agio nel ruolo, col fisico allucinato e immateriale, Paone regala una prova d’attore incisiva e generosa, una capacità mimetica e una tenuta mnemonica che non teme inconvenienti e un’innegabile agilità nei passaggi di registro.
Il percorso del protagonista è reso con strumenti attoriali realistici (che non significa clinici, cioè da studio psicologico, ma con un attento studio dei segni dello squilibrio come attestati in letteratura, sempre più densi e sempre più esteriori, fino al grottesco, al grido).
Attorno a questi sono costruite una scenografia e un’illuminazione che, riuscite di per sé, non sempre si fondono perfettamente con la pratica attoriale. Ma è una questione di sottigliezze: se la scenografia è simbolica, l’illuminazione e il suono (rispettivamente di Loïc François Hamelin e Alessandro Olla) si avvicinano al tema della “pazzia” coi mezzi classici della sua rappresentabilità teatrale.

La scena di Sabrina Cuccu è costituita da una sorta di cornice di cartone appesa al soffitto, che ricorda un ring quadrato di incartamenti burocratici, faldoni, pronto a calare e a risalire in punti specifici, fino a circondare il protagonista come un recinto; a terra le risponde uno speculare quadrato di palco coperto di palline da ping-pong, a simulare la neve o un tappeto di delicate uova in cui dibattersi. Il seggio, o trono in cui il protagonista torna a sedersi di tanto in tanto, è in realtà un carrellino, che si sdoppia in altri tavolini più piccoli su cui il povero Popriščin cammina, come a tentare di mantenersi all’asciutto da un pericoloso flusso sottostante.
L’illuminazione tende al grottesco, ai colori freddi, spesso partendo dal basso, con fili a led attorno alla cornice di palline; l’evocazione della follia è resa all’udito con suoni ripetuti, corde di violino pizzicate o “sforzati” insistiti con l’arco.
Paone è salutato da applausi convinti e prolungati.

A Stanley Kubrick, più che a Thackeray è ispirato, per esplicita ammissione del regista, il “Barry Lyndon” portato in scena al Teatro Nuovo da Giancarlo Sepe con la compagnia del suo Teatro La Comunità. E non sarebbe difficile riconoscerlo, considerata la letterale citazione di battute e musiche, e il tentativo realistico dei mezzi, un brulicare di tricorni e crinoline.

 

Barry Lindon (photo: Salvatore Pastore)

La riedizione di questo classico della cinematografia si avvale di un gran numero di attori, alcuni in un doppio ruolo, in scena con una fisicità giovanile e un’energia che sorvolano sulla maggior parte del testo con un senso di premura tranchant, giustificabile dall’impresa di comprimere in un tempo limitato un capolavoro esteso che sulla pellicola scorre invece con indicibile calma.
Questa traduzione scenica, che sostituisce la voce off del film con monologhi del personaggio di Barry recuperando la prima persona del romanzo, si scontra proprio con questo preciso problema, quello della durata: si muove fra narrazioni, insistiti momenti lirici e irrecuperabili ellissi, pericolose magari non per la comprensione della trama, ma certo per la fissazione e la sedimentazione di affetti e personaggi (ne è un esempio il trascorrere sbrigativo sulla sezione della paternità di Barry).

Il problema della durata è, più tecnicamente, legato a quello della trascrizione scenica di testi privi della classica struttura a climax, come il presente, pubblicato in origine a puntate e dunque strutturato a capitoli chiusi in sé. Se Kubrick risolveva il problema con una gestione da burattinaio e chimico del tempo rappresentato, costruendo un mirabile veliero in bottiglia, una esatta micrografia della vita vera, con i suoi tempi morti e i suoi silenzi, con lo spazio circostante che – senza cessare di essere sfondo – si fa vita esso stesso, con l’espansione, tipica della memoria, di attimi millesimali a lunghe storie nella storia, con la costruzione di inattese sinestesie in cui affidava a un brano musicale il sapore lungo di un’epoca, purtroppo all’operazione di Sepe non riesce qualcosa di simile. Pantomime, cori, monologhi, tentazioni da musical, narrazioni e persino un esordio metateatrale inzeppano lo spettacolo di forme diverse senza affrontare realmente il problema.

E così questo esperimento di “Barry Lyndon” è colorato e festoso, ma come il personaggio eponimo «pigro, risoluto e senza principi». Pigro poiché procede evitando la fatica maggiore, risoluto per il suo modo di aggredire la scena spazialmente e acusticamente, e senza principi in quanto privo di un’idea rappresentativa forte, nonostante le innumerevoli trovate svianti. E, talvolta, nulla è più controproducente per “un’idea” che una moltitudine di idee. Generoso, comunque, il ringraziamento del pubblico.

Diario di un pazzo
di Mario Moretti
liberamente ispirato all’omonimo racconto di Nikolaj Vasìlevic Gogol
con Nando Paone
regia Alessandro Maggi
scene Sabrina Cuccu
luci Loïc François Hamelin
musiche originali Alessandro Olla
produzione Sardegna Teatro

durata: 1h 20′
applausi del pubblico: 3′

 

 

Barry Lyndon (il creatore di sogni)
spettacolo tratto liberamente dal romanzo di William Makepeace Thackeray
nella riduzione teatrale di Giancarlo Sepe
con gli attori della Compagnia del Teatro La Comunità (in o. a.): Massimiliano Auci, Sonia Bertin, Gisella Cesari, Silvia Como, Tatiana Dessi, Turi Moricca, Federica Stefanelli, Giovanni Tacchella, Guido Targetti, Pino Tufillaro, Gianmarco Vettori, Vladimir Randazzo
musiche a cura di Davide Mastrogiovanni e Harmonia Team
scenografie e costumi Carlo De Marino
luci Guido Pizzuti
organizzazione Grazia Sgueglia
produzione Associazione Teatro La Comunità 1972 – Teatro di Roma/Teatro Nazionale

durata: 1h 30′
applausi del pubblico: 2′

 

 

Visti al Napoli Teatro Festival Italia l’1 e 2 luglio 2018

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