I casi degli ultimi giorni (da Paolo Nori a Sandro Teti) sembrano imporre una messa al bando indiscriminata della cultura russa. E il ruolo dell’intellettuale si sgretola davanti ai nostri occhi
Nel 2014, una Università italiana consegna a domicilio (a causa delle proteste di studenti e professori) una laurea ad honorem al ministro della Cultura russo Vladimir Medinskij. Fiero assertore di posizioni omofobe, nemico di ogni multiculturalismo, attualmente Medinskij dirige i negoziati per Putin con i rappresentanti del governo Zelenski.
Ieri, 2 marzo del 2022, un’altra Università italiana decide di annullare un corso su Dostoevskij tenuto dallo scrittore Paolo Nori (autore del recente “Sanguina ancora. L’incredibile vita di Fëdor M. Dostojevskij”) perché l’argomento sarebbe troppo sensibile viste le attuali circostanze. La reazione dell’opinione pubblica obbliga l’Ateneo a fare marcia indietro nella stessa giornata, senza che si taccia, per fortuna, la condanna di tale gesto.
Ma non è finita. Un teatro italiano annulla un festival di Cultura russa perché sostenuto da autorità russe. Dicono di amare la pace e non la guerra. Il direttore non si smarca solo dal patrocinio del governo russo; ritiene impossibile, per ora, esaltare ma anche riflettere sulla Cultura russa.
Sempre in questi giorni, infine, l’editore Sandro Teti è minacciato di morte per quello che pensa, per i libri che pubblica e per il lavoro che fa.
Improvvisamente mi chiedo: che lavoro fanno Paolo Nori o Sandro Teti, che lavoro faccio io?
Venerdì e sabato prossimi, dovrò tenere due corsi a degli studenti universitari, in Francia, incentrati sul teatro di Cechov e sulla storia del teatro russo. In questo momento, ho paura che sia ancora più difficile spiegare a giovani studenti universitari, soprattutto ai ragazzi del primo anno che sono più giovani rispetto agli studenti universitari italiani, fino a che punto la storia del teatro russo è parte indissolubile della storia del teatro europeo. Perché questa storia è luminosa e tragica, specchio della storia del Novecento. L’orrore che si è scatenato sull’Ucraina deve averli scossi profondamente, come ha scosso me, e come avrebbe profondamente scosso me alla loro età.
Poi mi dico che sbaglio, che non ho abbastanza fiducia nella lucida umanità di chi ha vent’anni ed è mosso da slanci utopici, idealistici, più forti del cinismo del nostro mondo. Ho però paura di illudermi, perché percepisco confusamente che l’opera di svilimento, lunga e persistente, della Cultura, della sua funzione fondamentale, potrebbe aver colpito in profondità la generazione di chi oggi ha vent’anni, o quasi, in Europa.
Già, ma qual è la funzione della Cultura? Che funzione svolge chi, con la Cultura, paga un affitto, si veste, si nutre?
È già così difficile, così complesso e rischioso definire cos’è, cosa dovrebbe essere, la Cultura: parliamo della Kultur della tradizione tedesca romantica e nazionalista, antenata dei Kulturkampf del Novecento, o della Culture della tradizione francese, segnata dall’exception culturelle, proiezione della grandeur della Nation?
Dal momento che si sceglie di insegnare, e quindi di dirigere il lavoro intellettuale di altri, non foss’altro che per piccoli progetti, si è degli intellettuali organici, secondo Gramsci. Per lui è infatti indispensabile formare degli intellettuali di nuovo tipo. Si dovrebbe quindi scegliere di essere organici a chi, in favore di quale classe: quella dominante o quella che è sfruttata? Insomma, si è sempre organici ad una forma di potere, ma si può prendere coscienza di questo stato di cose per cambiarlo.
Nell’Europa del 2022, è possibile pensare che gli intellettuali siano automaticamente, senza una presa di coscienza forte, organici ad una forma di dominazione?
Il lavoro che noi facciamo, in Europa, mi pare essere stato funzionale non solo a dei rapporti di potere nella società, ma ad una forma di potere, quello dell’Unione Europea, nella quale io ho creduto, benché in modo molto critico, e che ha sempre rifiutato la guerra.
Fino al 24 febbraio 2022 era inimmaginabile che quest’Europa si armasse in ragione di un contesto di guerra in Europa. Ora tutto è diverso, e non possiamo fare finta di niente: dobbiamo avere il coraggio di vedere il cambiamento profondo del contesto nel quale viviamo.
D’altro canto mi sembra anche che chi cerca di svolgere una funzione intellettuale in quest’Europa, almeno fino a ieri, assolveva anche, e oggettivamente, una funzione di pace. L’insegnamento e la ricerca non possono che essere opere di pace: il dovere di chi assolve questa doppia funzione è capire altri uomini, altre società, altri modi di pensare. Ovvio, nel passato questo dovere, questa funzione è stata anche piegata per sostenere nazionalismi, ideologie della razza. Fino ad oggi, poi, la nostra funzione è stata piegata al servizio del mercato, che tragicamente si credeva uno strumento di pace, di sublimazione del conflitto bellico verso un conflitto “freddo”. Tragica e colpevole ingenuità.
Eppure, nonostante tutto, io scelgo di credere che la funzione di pace della Cultura nel mondo europeo dopo il nazismo, lo stalinismo e dopo Hiroshima non sia stata ancora superata dalla “logica” della guerra. Oggi è difficile, col clima che impesta la sfera pubblica italiana ed europea in generale, assolvere la funzione intellettuale come una funzione radicalmente contraria ad ogni guerra. Il capitalismo, come altre ideologie, ha piegato la Cultura ai suoi fini, che fino a ieri ci si è illusi escludessero la guerra.
Oggi il nostro lavoro di pace, non pacifista ma contro la guerra, già svilito dal neoliberismo, ha un suo posto in un’Europa in guerra?
Io scrivo una tesi, faccio ricerca, per ora ho la fortuna di insegnare, cerco di intraprendere una carriera difficile anche perché svilita dalla logica di un mercato e di una classe dirigente che addolcisce le sanzioni economiche all’assassino Putin ma sceglie di inviare sempre più armi ad un popolo che, se l’escalation non sarà fermata ora, verrà massacrato.
Ha senso la funzione che cerco di compiere, con tutti i miei sbagli e le mie contraddizioni, in questa Europa che include membri che rifiutano i rifugiati con un colore della pelle, degli occhi, dei capelli diverso da quello degli ucraini, dei polacchi, degli ungheresi?
Il regista russo Lev Dodin, su Libération, ha scritto due giorni fa una lettera straziante. Urla contro la guerra, e mi ricorda che, come ci ha insegnato Saba, “il dolore è eterno, ha una voce e non varia”. Il direttore del Teatro Maly di San Pietroburgo, uno dei teatri più importanti per la storia del teatro d’Europa, scrive che la Cultura serve ad immedesimarsi nell’altro, “ad assumere il dolore degli altri come il proprio”. Per Lev Dodin la Cultura ha perso, per l’ennesima volta, perché non ha saputo “compiere la sua missione”.
Ho paura che abbia ragione, ho paura perché per me, ora, raccontare del teatro di Stanislavski, di Brecht o ancora pensare all’uso di Goldoni da parte Strehler come di “un messaggio di fiducia per gli uomini attraverso la liberazione del riso più aperto, del gioco più puro”, dopo gli orrori della Seconda guerra mondiale, significa guardare in faccia un’illusione mentre si sgretola sotto i miei stessi occhi.
Allo stesso tempo spero che Dodin si sia, almeno in parte, sbagliato. La nostra idea di Cultura non ha, ancora, perso la sua funzione irriducibilmente contro la guerra. Forse, in un mondo che ha rinunciato ad ogni valore morale superiore agli interessi privati dei singoli, battersi per un’idea di Cultura come strumento di emancipazione contrario ad ogni guerra è l’unica posizione che possiamo assumere per avere qualcosa per cui combattere oggi, domani, sempre.