Digital Life 2013: fluidità dei linguaggi, liquidità dell’immaginario e sparizioni

L'immagine scelta per Digital Life 2013
L'immagine scelta per Digital Life 2013
L’immagine scelta per Digital Life 2013
Si tratta forse dell’ultimo progetto espositivo del Macro prima della “ridefinizione d’uso” al quale sembra destinato il museo di arte contemporanea di Roma.
E’ quanto emerge nei giorni in cui l’assessore alla cultura di Roma Flavia Barca sembra non sapere offrire risposte ragionevoli a riguardo, mentre il direttore Pietromarchi è stato destituito dal proprio ruolo nonostante i “numeri” e la “qualità” dell’offerta curatoriale (per chi volesse approfondire rimandiamo a questo articolo).

Aldilà delle estremamente gravi contingenze, fino all’8 dicembre nei padiglioni dell’Ex Mattatoio di Testaccio, sono allestite le opere dell’edizione 2013 di Digital Life, costola intermediale del Romaeuropa Festival, dedicata quest’anno ai “Liquid Landscapes”, e concepita per la prima volta in collaborazione con il francese Le Fresnoy, centro ricerche e formazione sulle arti audiovisive e mediatiche. Così da sottolineare la mancanza, da queste parti, di un’istituzione omologa italiana: dov’è finita, ad esempio, l’idea di Roma Europa Web Factory?

Ma proseguiamo. All’insegna della contaminazione tra linguaggi e materiali, travalicando i contorni sfumati delle arti in dialogo e scontro con le vecchie e nuove tecnologie, Digital Life indaga la metropoli e il suo (dis)umano paesaggio, tra nuove Babeli superaffollate e caotiche (“Babel”, i collage fotografici d’un Hieronymous Bosch dei nostri giorni, Du Zhenjun), oppure, traendo spunto dalla inestinguibile fascinazione per il dismesso, ripercorrendo spazi dove la presenza umana è ormai solo fantasmatica (la Shanghai sparita di “Under Construction” di Zhenchen Liu, o le rovine di Hashima de “L’Empire” di Aurelien Vernhes-Lermusiaux, in cui attraverso sensori di movimento, gli spettri che si aggirano nell’isola abbandonata siamo proprio noi “fruitori”).

Concepita con un doppio binario tra interno ed esterno (le due macroaree tematiche mettono a confronto “il mondo che conosci” vs “il mondo che possiedi”), la mostra sembra rispettare quanto consiglia Lidia Ravera nei “saluti” di presentazione: non difendersi, ma aprirsi all’indecifrabile, accogliendo l’intangibile e il multiforme, il liquido, materia estesa e fluida, tra rielaborazione del pre-esistente, sua stratificazione e ricombinazione, in una sovrapposizione ambigua di reale e virtuale, tra estensioni percettive, nuove modalità di perlustrazione dei sensi e degli spazi.

Se la ricomposizione digitale del mondo si serve spesso della distorsione spazio-temporale del visivo per ripensare il nostro rapporto con il prossimo (“Ground” di Ryoichi Kurokawa, “Ligne Verte” di Laurent Mareschal, “Falling Forward” di Robin Rimbaud/Scanner), è la ricreazione di paesaggi sonori la soluzione in cui il ruolo del “visitatore” quanto quello dell’ambiente stesso non resta un fattore neutrale ma contribuisce all’organicità dell’opera: è la sempre più ricercata interattività, quella ad esempio ottenuta da Roberto Pugliese con le sue “Unità minime di sensibilità”, grande installazione sonora (la più convincente anche a livello “plastico”) composta da centinaia di speaker appesi a lungi cavi, in grado di riprodurre i suoni ricavati dall’elaborazione dei dati atmosferici dell’habitat ospitante.

Passo ulteriore sembra essere il site specific, la creazione di ambienti dotati di una certa organicità mediata da dispositivi che agiscono tra premeditazione e caos: il “Vuoto sospeso” di Carlo Bernardini fa della luce (e della sua copiosa assenza) la materia plastica da declinare a seconda della location. Mentre “Il sole protetto”, installazione visiva e sonora di Quiet Ensemble, fa dell’amplificazione sonora il fulcro dell’esperienza: in una grande gabbia sono appese una serie di lampadine che, a tempi alterni, si accendono e spengono, attirando a sé una miriade di insetti disseminati nello spazio. Ad ogni lampadina è abbinato un microfono, in modo da ricreare così un sorta di “concerto” composto dai movimenti casuali degli animali nell’aria.

E poi l’opera che più si interroga sul superamento delle dinamiche canonizzare tra spettatore e opera, con un occhio di riguardo al cinema e al teatro. Con “3More60º” di Pietro Babina/Mesmer, realizzato con il sistema di riprese 360º GoPano, lo spettatore, piazzato al centro di un cilindro e con capacità di girare intorno a sé stesso con libertà, è forzato a seguire e inseguire la storia.
Nel ruotare perderà qualcosa, ma il campo visivo e le modalità operative del suo sguardo si avvicinano così a quelle della realtà. La narrazione e l’azione, affidate ai corpi e alle voci di Francesca Mazza e Mauro Milone, raddoppiano lo straniamento e l’effetto di attrazione misteriosa che l’installazione presuppone. E aldilà del piacere di chi interagisce, dall’esterno gli altri possono apprezzare l’involontaria qualità performativa del fruitore: un monitor è piazzato fuori dalla cabina di proiezione e permette di osservare come l’unico spettatore dell’installazione si muova all’interno della sezione cilindrica dentro la quale è proiettato il video.

Resta da accennare ad un altro sconfinamento: la sparizione/smarrimento/furto della farfalla di “Buttefly Effects” di Donato Piccolo (così che, paradossalmente, l’effetto/capacità di generare una catena di eventi dal forte impatto a partire da un semplice movimento è risultato ben più ampio del solo “piacere estetico” cui l’opera poteva ambire), con l’evento collaterale non previsto: la chiusura di un giorno, per protesta, di Digital Life, per sottolineare la mancanza di adeguate misure di sicurezza e per conflitti (a quanto pare adesso risolti) tra la fondazione organizzatrice e l’azienda romana che opera nella mostra.
 

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