Dopo la messinscena de “Il Gabbiano” che nel luglio di due anni fa ci aveva tanto impressionato, siamo tornati al teatro Florenskij di Livorno per assistere al primo studio di “Zio Vanja”, nuovo percorso laboratoriale della compagnia Garbuggino/Ventriglia.
Difficile fare un confronto con la precedente esperienza, poiché il secondo lavoro ha mosso i primi passi da poco. Ma i punti di forza che avevamo sottolineato nel Gabbiano già si intravedono e paiono pronti a germogliare anche in questo nuovo itinerario, come ci dicono i due attori nell’intervista.
L’incontro con Silvia Garbuggino e Gaetano Ventriglia è stata anche l’occasione per rivolgere alcune domande a due partecipanti del laboratorio, Andrea Farulli e Giulia Bicchielli, per sentire una volta tanto voci davvero nuove.
Silvia e Gaetano, come mai avete scelto di mettere in scena ancora Cechov?
È stato in qualche modo naturale. Ogni autore è un mondo a sé, ed è difficile abbandonarlo subito se ti ci sei addentrato. In qualche modo è una questione di affinità, curiosità, interesse, innamoramento, amore. Cechov poi è complesso e ci devi entrare in punta di piedi. E poi non è morboso, non è pesante; e proprio per questo è davvero radicale. “Il Gabbiano” è un’opera radicale; chiunque faccia dell’espressione artistica la propria vita, dovrebbe averci un rapporto quotidiano e spietatamente onesto.
E perché “Zio Vanja”?
“Zio Vanja” ci si sta svelando pian piano, tutto avviene ancora mentre ti stiamo rispondendo, perciò non ti possiamo dire più di così.
Gaetano, ammirandoti in scena si ha la forte sensazione che il personaggio di “Zio Vanja” ti sia particolarmente vicino…
Grazie. Vanja dice: “La mia vita è passata, non ho vissuto. Io ho talento, intelligenza, coraggio. Se avessi vissuto in modo normale, sarei potuto essere uno Schopenhauer, un Dostoevskij!”. Ma nel momento in cui tu nomini tutto questo, ecco che la tua vita è già di fatto ricominciata. Il problema è ricominciare continuamente, come in “Solaris”, frame dopo frame: ri-suscitare in noi il desiderio e la bellezza.
Non sento questo personaggio vicino a me in modo speciale. Se sento vicino Vanja è perché lui rappresenta tutte le persone a cui vorrei assomigliare, che attraversano la vita con un cuore limpido. E questo vale anche nell’arte, dove però è tutto più difficile. Ma attraverso questo testo posso aprire profondamente me stesso e parlare con gli spettatori in modo aperto: questo sì, più che in ogni altra mia interpretazione in passato. E allora ci sarà la possibilità di uscire dal teatro tutti insieme. L’unica differenza è che l’attore esce dal teatro per tornarci la sera dopo. Anzi, solo se esce davvero, può tornare la sera dopo.
Spiegati meglio…
Bisogna capire che il cammino inizia e anzi consiste nel comprendere i propri limiti: di quel momento, di quella sera, dell’intera nostra esistenza fino ad oggi. Se li comprendi e li accetti, li puoi superare, e allora potrai vederne di nuovi, forse con l’aggiunta di un angolo di cielo. Altro non è dato. Non a noi, non adesso. Il talento ce l’hanno in molti, l’intelligenza pure. Il punto vero è il coraggio: senza coraggio non ci sarà una direzione precisa. Se pensi di poterlo sostituire con l’opportunismo, allora arriva già la vecchiezza: è di questo che si parla in “Zio Vanja”. Vanja attraversa tutto, con tutto se stesso, e vedrà “il cielo cosparso di diamanti”. Ma lui capisce anche che la vita senza Astrov e Sonja sarebbe impossibile. Dobbiamo riuscire a superare la visione da italiano medio applicata a Cechov: perché in quell’angolo di cielo si “sentano gli angeli”.
Silvia, come vivi questo testo rispetto al precedente Gabbiano? Il tuo approccio mi è sembrato molto diverso, anche se stiamo parlando di un primo studio…
L’approccio come attrice non è cambiato. È cambiato il personaggio. Astrov lo cerco dentro di me ed è una crescita in consapevolezza, una caduta verso l’alto. Nello stesso tempo devo riuscire a permettere ad Astrov di agire su di me come agisce su Sonja.
Dopo questo primo studio anche “Zio Vanja” debutterà in forma integrale?
È nella natura del nostro lavoro non stabilire le cose a priori. I quattro atti del “Gabbiano” ci sono stati perché sono apparsi.
Cos’è cambiato nei ragazzi del laboratorio rispetto al lavoro precedente?
L’esperienza de “Il Gabbiano” li ha cambiati. Ognuno ha lavorato con più personaggi, sia in prova che nella versione che poi abbiamo portato in scena: questo permette un rapporto intimo e profondo con il senso del testo. E poi il confronto, per loro nuovo, con un festival come Inequilibrio e le riprese di Rai 5.
Adesso siamo dentro un nuovo testo e questo implica sempre un ri-cominciare, un rimettersi al gioco, un vivere altri pensieri, un vedere altre cose. Come dice Piero Ciampi nel “Giocatore”: “Domani tutto questo mai mio”. Se ci mettiamo a questo rischio, potrebbe forse andarci bene. In caso contrario, almeno avremo saputo qualcosa.
Come vedete il teatro dai “margini” – uso il termine in modo provocatorio -, se così possiamo definire il vostro stare fuori dei giri che contano…
Si potrebbe rispondere con due domande: Quali margini? Quale teatro? Non ci si può pensare come il centro dell’universo, l’universo stesso è fortunatamente impensabile. Marginali siamo, tutti e sempre; bisogna farsene una ragione. Il rischio è di perdere tutto il nostro limitato tempo e diventare vecchi nella lotta per essere centrali, per essere non marginali. Dobbiamo cercare di essere centrali rispetto al nostro cuore, alle nostre parole, al nostro lavoro. Alla nostra vita e al nostro amore. In qualche modo, allora voleremo oltre i margini, verso margini più ampi in grado di ridefinire ogni cosa.
Torniamo indietro di qualche anno. Come è nata l’idea di aprire questo spazio?
Volevamo un posto bello, semplice e pulito dove potessero accadere cose semplici pulite e sensate senza interferenze né compromessi. Per esempio la rassegna di soli musicali A Soli Suoni (ideata con Tony Cattano) dove ogni sera è accaduto un qualcosa di rara bellezza e sorprendente per i musicisti stessi. La musica è stata la nostra prima idea per aprire il nostro teatro all’esterno. E non è stato un caso.
Quali sono i vostri progetti futuri, come compagnia e come singoli?
“Don Chisciotte” e “Zio Vanja”.
Per quanto mi riguarda (Gaetano Ventriglia, ndr), da solo sto pensando di lavorare su “Bartleby lo scrivano” e sulla figura di Cèzanne. In genere i progetti solisti mi prendono lunghi periodi di sedimentazione e solo un mese di prove. Per ora sono ancora lontano, lascio maturare senza interferire. Intanto prendo appunti per un piccolo libro attorno alla “Tempesta”, a ciò che di quel testo mi si è aperto inaspettatamente. Si chiamerà “È una tempesta che ci ha portato qui”.
Due tra i protagonisti in scena sono Andrea Farulli e Giulia Bicchielli.
Andrea, come hai deciso di fare quest’esperienza?
Il laboratorio mi fu proposto da un’amica. Ero abbastanza sconsolato e solo per non accettare. Si trattava soprattutto di vincere un’atavica timidezza: mi sono detto che mi avrebbe comunque giovato.
La prima volta davanti al pubblico è stato un vero tormento. Però c’era anche un certo gusto, forse un po’ masochistico e voyeristico di mostrarsi per quel che si è. E poi non ci sono mica tante occasioni per vivere situazioni, anche imbarazzanti, al riparo della “vita” di qualcun altro. Di teatro sono stato sempre abbastanza digiuno. E lo sono, purtroppo, anche ora. Cechov l’ho scoperto alla tenera età di quarant’anni e me ne sono innamorato.
Quali sono gli spettacoli che hai visto e ti sono piaciuti ultimamente?
Non vado spesso a teatro. Recente per me vuol dire fino a un anno fa… Elena Bucci e Claudio Morganti in “Recita dell’attore Vecchiatto”, “Grattati e vinci” dei Quotidiana.com, Andrea Cosentino con “Primi passi sulla luna” e un “Calapranzi” di Pinter. Ho l’impressione che lavori troppo interessanti non ne passino poi tanti sulla piazza, o magari io me le sono perse solo per ignoranza. O forse non sono adeguatamente pubblicizzati, almeno per lo spettatore comune. E qui voglio fare una richiesta ai critici: non parlatene solo dopo una replica di uno spettacolo; parlatene prima, fategli pubblicità se merita di essere visto!
Quale teatro ti piace?
Adoro i classici, ma sento anche la necessità di scritture nuove, lavori originali calati nel presente, qualcosa che parli come si parla alla propria coscienza. E soprattutto un teatro che sia sincero. Perché il teatro è come il sesso: bisogna godere in modo sincero, se uno dei due finge o si annoia, è finita.
E tu Giulia, il tuo teatro da spettatrice?
Ultimamente non ho avuto modo di andare a teatro a vedere spettacoli per la scarsità di tempo e una moltitudine di impegni…
Ma quale teatro ti piace?
Quello sincero, senza pregiudizi e umile; quello che dà la possibilità di esprimersi liberamente, di far sentire vivi e partecipi attori e spettatori; quel teatro che mi fa sentire come quando ero bambina e leggevo qualsiasi genere di libro e la cosa bella era il sentirsi appartenente a quel testo, l’essere empatici con i personaggi: il sentirsi assolutamente partecipe e, anche dopo più letture, in un modo sempre nuovo.