
E’ ancora un mito barocco il punto di partenza del nuovo spettacolo di Filippo Timi, questa volta il “Don Giovanni”.
La storia è quella di un uomo che, pur biasimato nella sua sfrontata immoralità, con la sua ostinata resistenza al pentimento è divenuto l’eroico portavoce di una società che non riusciva più a riconoscersi in un sistema di valori anacronistico da cui faticava tuttavia ad emanciparsi.
Delle tante riscritture, Timi predilige quella di Da Ponte musicata da Mozart, forse perché del grande compositore condivide lo slancio ludico e gioioso.
Ma se l’opera appare allo spettatore stravolta fin dall’apertura, con un Don Giovanni tossicodipendente, come già accadeva nei precedenti lavori di Timi, il tradimento riguarda più la forma che il contenuto.
I personaggi appaiono infatti distorti in maschere grottesche, ma le loro psicologie si appiattiscono solo apparentemente: i dialoghi alienati e ripetitivi non fanno che amplificare il dolore o la crudeltà che, a ben vedere, caratterizzano già i protagonisti del capolavoro di Mozart. La sottomissione di don Ottavio a donna Anna, il sadismo di quest’ultima, incapace di rinunciare alla sua vendetta, l’ossessione di donna Elvira per un uomo palesemente disinteressato a lei, la semplicità e l’ingenuità di Zerlina e Masetto sono sì spinti all’accesso da un’ironia impietosa e dissacrante, ma solo con l’intento di far risaltare elementi rilevati nel sottotesto originale.
Così anche lo stesso Don Giovanni ricalca il percorso in discesa tracciato dai suoi autori già nel Seicento: un cammino che lo porta a scendere dall’alta società alla realtà contadina, fino a cedere gli stessi panni di signore per indossare quelli del proprio servitore. Una graduale perdita della dignità come prezzo pagato assurdamente in cambio della ricerca esasperata del potere e della manipolazione.
Più che la seduzione erotica, infatti, è il desiderio di conquista il vero tema del dramma. Una ossessione per il potere e il controllo che paradossalmente si rivolge contro lo stesso Don Giovanni, riducendolo da amante a latitante.
Così Timi più che un gioco di seduzione disegna un gioco di potere, con una donna Elvira e una donna Anna profondamente frustrate, decise ad imporsi su Don Giovanni a prescindere dalla sua capacità di amare. E allo stesso modo l’eroe di Timi è un abile manipolatore, attratto dall’idea della conquista molto più che dallo smarrimento sensuale.
Azzeccati, quindi, risultano i costumi: scomodi, plastificati, ingombranti, sono macchine per catturare l’attenzione che alla fine ingabbiano i loro stessi protagonisti, ostacolandoli di fatto da un piacere più esibito e anelato che raggiunto.
Come già evidente dalle anticipazioni rilasciate dallo stesso Timi alla stampa, molti sono i possibili parallelismi del Don Giovanni con i suoi lavori precedenti. Ma se la struttura dello spettacolo, con un Timi divo centro di un sistema di personaggi satellite (solo apparentemente secondari) ricorda molto da vicino il suo “Amleto 2”, ciò che allontana i due eroi è il tema metateatrale, anche questa volta presente, ma capovolto: non più il dolore di chi ha raggiunto ormai una consapevolezza superiore, ma l’ostinazione di chi, pur essendo vicino a raggiungerla, la nega, sottraendosi ad essa irresponsabilmente, e sottoponendosi volontariamente al gioco umiliante del travestimento farsesco, cui la vita ci sottopone.
Gli uomini protagonisti di una farsa da avanspettacolo in Amleto, sono qui ridotti a statuine di porcellana smaccatamente kitch, emblemi del cattivo gusto popolare e medioborghese.
Se questa presa di coscienza spingeva Amleto a isolarsi e a sottrarsi a qualunque rapporto umano, Don Giovanni, al contrario, non cerca che relazioni umane, disposto nel suo aperto disinteresse per ogni intellettualismo a un percorso sempre più degradante: dalla donna dell’alta società alla contadina svampita, fino all’inseguimento di una servetta tanto inconsistente da non apparire mai sulla scena.
E come aderisce alla loro soffocante semplicità, così accoglie anche il loro amore per l’estetica eccessiva, vistosa, ridicola nella sua mancanza di misura e sbalorditiva nella sua capacità di accostare le cose più impensate.
Il Don Giovanni che Timi ci rivela è dunque un uomo che rifiuta deliberatamente di crescere, ancorandosi testardo ai suoi miti infantili e, lungi dal voler affermare la propria virilità, nel finale vagheggia senza vergogna una regressione all’utero materno. Un uomo che respinge fino alla fine un qualunque atto di responsabilità, tanto da rifiutare di prendere sul serio persino la morte, riducendola ad una macchietta vestita in rosa shocking che sminuisce anche un’ingente tragedia storica quale il nazismo, chiudendo gli occhi davanti al dolore della malattia.
Ma ciò che più inquieta è l’estensione di questa lettura all’umanità intera. L’irresponsabilità infantile riguarda infatti ogni personaggio, senza alcuna esclusione. E’ questa la vera chiave con cui ci suggerisce di leggere l’attualità: un’umanità in caduta libera non perché afflitta da un destino crudele, ma perché fondamentalmente resistente ad ogni atto di responsabilità e restia ad ogni forma di coscienza. Una riflessione che sembra rendere perfettamente la situazione del nostro Paese, soprattutto dopo gli ultimi risultati elettorali.
Lungi, tuttavia, da ogni facile interpretazione del reale, Filippo Timi esalta nello stesso tempo la vitalità del suo Don Giovanni, lasciandosi sedurre lui stesso dalla sua franchezza, e lanciando insieme al suo personaggio un’idea di moralità amorale, del tutto spogliata di ogni senso di colpa, non più avversa al male, ma piuttosto concentrata sull’amore per la vita in tutte le sue forme.
Rispetto ai precedenti lavori, il “Don Giovanni” di Timi si presenta ancora più ricco visivamente, anche grazie ad un budget evidentemente più alto. Di grande impatto, per esempio, la pavimentazione luminosa e le quinte girevoli, da un lato dorate, dall’altro candide, di modo da poter alternare scene cariche a scene quasi nude. Ma a risaltare maggiormente sono i costumi, disegnati da un collaboratore d’eccezione: Fabio Zambernardi, nuovo nel mondo del teatro, ma già stilista per Miuccia Prada, il quale dà prova di una eccezionale creatività, assecondando il gusto certo non facile di Timi per la stravaganza e quel grottesco vicinissimo alla demenzialità. Ne risulta una serie di costumi eccentrici, tanto che lo spettacolo diviene in un certo senso una sfilata di capi sempre più strabilianti.
La colonna sonora si caratterizza, invece, soprattutto per una serie di improbabili accostamenti, spaziando dalla lirica al pop, dal repertorio disneyano ai manga televisivi ma, in generale, prediligendo soprattutto veri cult degli anni 80, da Celentano ai Queen, quasi che la regressione infantile di Don Giovanni avesse portato lo stesso Timi a ripescare tutti gli idoli della sua preadolescenza.
Completano lo spettacolo proiezioni video quasi spiazzanti per la loro apparente incongruenza con il dramma mozartiano, molti tratti da youtube, tanto bizzarri da dimostrare che la nostra realtà non è poi meno grottesca dell’universo folle dipinto da Timi.
Molto buono il cast degli attori, seppur non forte come nell’Amleto. Si sente, probabilmente, la mancanza di Lucia Mascino. Sempre esilarante la brava Marina Rocco nella parte della sempliciona romana, molto azzeccato Roberto Laureri e lodevole Matteo De Blasio, peraltro al suo debutto teatrale.
In scena a Milano fino al 24 marzo.
DON GIOVANNI. Vivere è un abuso, mai un diritto
di e con Filippo Timi
e con: Umberto Petranca, Alexandre Styker, Roberta Rovelli, Marina Rocco, Elena Lietti, Roberto Laureri, Matteo de Blasio, Fulvio Accogli
regia e scena: Filippo Timi
luci: Gigi Saccomandi
costumi: Fabio Zambernardi in collaborazione con Lawrence Steele
regista assistente: Fabio Cherstich
direttore dell’allestimento: Emanuele Salamanca
la scena è stata realizzata presso il Laboratorio del Teatro Franco Parenti
produzione: Teatro Franco Parenti/Teatro Stabile dell’Umbria
durata: 2h 30′
applausi del pubblico: 5′ 30”
Visto a Milano, Teatro Franco Parenti, il 5 marzo 2013