
La Pelanda, come tutto l’ex-mattatoio di Roma, è un luogo impregnato di violenza. Non la si nasconde nemmeno esibendola attraverso la sua nobilitazione – da luogo di massacro a luogo d’arte: i ganci a cui venivano appesi gli animali per essere scuoiati, con sotto le vasche a raccogliere il sangue, restano se stessi col loro odore di ferro al di là dell’imbellettamento da ristrutturazione post-qualcosa.
Alla Pelanda, quest’anno, Short Theatre ha ambientato una parte della sua programmazione, svolta nelle precedenti quattro edizioni interamente nel bellissimo Teatro India, altro riuscito frutto di meticciato architettonico.
Varcati i cancelli e superata la prima impressione da salotto buono nel dì di festa, si fanno avanti una serie di riflessioni, spontaneamente e senza alcuna premeditazione. E queste riflessioni hanno a che fare tutte, in un qualche modo, con la violenza.
Va bene che l’undici settembre è una data che per mezzo mondo è una ricorrenza intorno al tema, ma non lasciamoci suggestionare solo dalla cabala o dalle commemorazioni. C’è altro: forse proprio il fatto che un mattatoio sia il luogo più adatto a dare spazio al teatro. A un certo momento sembra quasi che il teatro non sia e non subisca altro destino che quello del macello. No, non è solo il “darsi in pasto” degli attori, come dice spesso Danio Manfredini, a legare così strette queste due minoritarie realtà. C’è questo, certo, ma c’è anche altro.
Alle ore 20 dell’11 settembre 2010 alla Pelanda di Roma è previsto “Ein musikalischer Spass zu Don Giovanni” dei Sacchi di Sabbia, scorso Premio Ubu proprio con tale spettacolo tratto dal Don Giovanni di Mozart. L’inizio però è slittato in avanti di diverse decine di minuti, e sono quindi una quarantina di minuti dopo le ore 20 dell’11 settembre 2010, sempre alla Pelanda di Roma.
Prima, però, facciamo ancora un piccolo salto temporale: torniamo a un paio d’ore precedenti a questo inizio, quando nel cortile antistante la struttura, fra il vociare dall’attiguo bar e lo squillo di un telefonino, vengono presentati due libri di teatro. Il primo (“Mush-up theatre Ricci/Forte”) è su Stefano Ricci e Gianni Forte; il curatore Francesco Ruffini a un certo punto sostiene che il critico può (forse talvolta persino deve) eludere, nell’avvicinarsi a qualcosa, fatti di gusto e fatti di mero contenuto. Il secondo libro (“Shoot/get treasure/repeat”), circa il lavoro dell’Accademia degli Artefatti su Ravenhill, è presentato da Attilio Scarpellini. Anche lui dice molte cose che possono colpire, tra queste la parola “sublime”. Non come aggettivo, ma proprio come sostantivo, anzi come meta, tensione dell’artista nel suo ricercare.
Ora, a chi scrive pare che queste due cose siano molto coraggiose: ci vuole del coraggio per dire che la critica deve eludere il gusto, così come possa anche prescindere dal contenuto; ed è assai coraggioso, oggi, dire in pubblico che l’artista cerca di avvicinarsi al sublime, perché questa affermazione è ammantata per molti soltanto di una stupefacente, quasi retrò, aura utopica, fino sentimentale, persino quando inserita in un contesto di de-qualcosa quale è gran parte dell’arte da mezzo secolo in qua. Insomma è la questione sempre delusa e sempre attuale su cui occorrerebbe soffermarsi.
In quel momento sbuca un po’ imbarazzata una vecchia lettura, un George Steiner che consegna intatta la domanda centrale: può – e come – l’artista del mondo senza Dio volgersi al sublime? I suoi risultati saranno esemplari e duraturi quanto quelli di un Michelangelo, di un Palestrina, di un Mozart? Vero è che Mozart è un po’ un caso atipico in questo, la sua ecletticità rende in parte fuori canone la domanda, ma pure lui le sue arie sacre indenni attraverso i secoli le ha scritte, non possiamo mica far finta di niente. Pure il Don Giovanni, in realtà, è un burlesque, sì, ma tragico e luciferino. Comunque, non è solo questo, c’è dell’altro.
E l’immenso altro nella sua agonia entra con noi nella sala della Pelanda la sera dell’11 settembre 2010 quando, poco prima delle 21, ci accingiamo a seguire le indicazioni della trama dell’opera che non vedremo se non attraverso la sua sgrammaticatura, volendo usare un termine della presentazione dello spettacolo.
Violenza e Sacro, al di là di René Girard, non è che son due pensierini piccoli da portarsi dietro, per cui gli sberleffi di e con cui la scena si anima agiscono da spassoso placebo, pieno di grottesca e puntuta intelligenza, insomma danno un po’ di sollievo.
Persino lo stare a guardare la maestria dei sei attori nell’esibirsi in una partitura tanto complessa è atto ristoratore per lo spirito afflitto. Sembra che tutte le appena accennate questioni evocate dal genius loci da una qualche parte, nell’assemblare questa calibratissima macchina di rumorini, riaffiorino persino – al di là della suggestione dello spettatore per i marmi appena ripuliti dal sangue, per la non lontana Cappella Sistina, per l’ultima frase ispirata al libretto di Da Ponte – e vengano in un qualche modo soffocate dalle pernacchie. È dunque questa la più diretta risposta che il contemporaneo può alle domande aperte altrove?
Lo spettacolo comunque risulta riuscito, il titolo che chiama in causa lo spasso/scherzo azzeccato e, a suo modo, il tutto è nel complesso rigoroso, rispettoso.
Risate, applausi a scena aperta e 2′ 05” di caldi saluti finali.
Don Giovanni di W.A.Mozart – Ein Musikalischer Spass zu Don Giovanni
un progetto di Giovanni Guerrieri, Giulia Solano e Giulia Gallo
con: Arianna Benvenuti, Giulia Gallo, Giovanni Guerrieri, Maria Pacelli, Matteo Pizzanelli, Federico Polacci, Giulia Solano
produzione: I Sacchi di Sabbia/Compagnia Sandro Lombardi, Teatro in collaborazione con Teatro Sant’Andrea di Pisa, Teatro del Giglio di Lucca, La Città del Teatro, Armunia Festival Costa degli Etruschi
con il sostegno della Regione Toscana
durata: 50′
applausi del pubblico: 2′ 05”
Visto a Roma, La Pelanda, l’11 settembre 2010