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Il mito torna uomo col Don Giovanni di Binasco

Photo: Donato Aquaro|Photo: Donato Aquaro

Photo: Donato Aquaro|Photo: Donato Aquaro

Chissà se qualcuno dei presenti alla prima parigina del febbraio 1665, quella organizzata nelle sontuose salette del Palais Royal, avrebbe mai scommesso un sou sulla lunga vita del “Dom Juan”?

È Valerio Binasco, questa volta, a fare i conti con il burlador defloratore per il Teatro Stabile di Torino: il grande dramma della tradizione europea (secondo soltanto alla premiata ditta Amleto/Edipo) torna così sulle scene. E “dramma” va inteso proprio nel senso di doloroso periglio, essendo stato – il testo – infelicemente gravato da ermetiche riletture e cervellotici starnazzamenti, stratificatisi nel corso di oltre trecentocinquant’anni di storia teatrale. Una tradizione, quella tutta novecentesca del “vampiro intellettuale” e del “malinconico esistenzialista”, dalla quale il regista prende programmaticamente le distanze, definendola – con tono inevitabilmente acidulo – “divagazione intellettuale”: «Mi allontano da questo schema, che ha dato i suoi frutti nei tempi andati e affronto questo strano capolavoro, dalla struttura sghemba e a detta di alcuni perfino raffazzonata, con il tipico coraggio che di solito mi viene quando il gioco si fa duro […]. Parto dal protagonista e decido che non ho nessun interesse né per il Cavaliere Spagnoleggiante della prima tradizione […], né per la figura emaciata […] tardoromantica che fu cara agli intellettuali del secolo scorso […]. Cosa cerco? Cerco proprio lui, il protagonista […] come posso immaginare che sia stato prima che nascesse la sua leggenda […]. Se lo cerco nella tradizione Don Giovanni non c’è, c’è un fantasma letterario al suo posto».

E a Binasco, invece, interessa la vita, la vita del teatro e dei suoi interpreti: come rivela infatti ad Armando Petrini, la scelta di rimettere in scena uno degli archetipi fondanti del canone occidentale discende dalla possibilità da esso dischiusa di «affrontare i temi a me più cari legati alla recitazione, alla figura dell’attore, all’interno di un percorso che lo veda come centro attivo e propulsivo».

Fulcro dell’intreccio è il corpulento protagonista – più Falstaff che non damerino epicureo – brillantemente rappresentato da Gianluca Gobbi, accompagnato in ogni fase dell’azione dal sublime e grottesco adiutore Sergio Romano/Sganarello, lacerato lacché e padre confessore al tempo stesso, sulle cui labbra l’interrogativo finale («E adesso chi mi paga, chi mi paga, chi mi paga?») si scolpisce come “Le Cri” di Auguste Rodin.
Attorno ai due, una costellazione di cammei e comparse, affidate ad attori non meno versati come Fabrizio Contri (significativamente papà Luigi prima e convitato di pietra poi), Nicola Pannelli (nei panni di Gusmano, La Violette e dell’esilarante suonatore di fisarmonica) e Fulvio Pepe (il primo dei fratelli di Elvira, Don Carlos, che viene rabbonito dal suo inconsapevole rivale a colpi di eristica).
Molto simpatici, al principio dell’atto secondo, i siparietti dialettali della coppia Pierrò/Sciarlotta (interpretata dal duo Lucio De FrancescoElena Gigliotti, quest’ultima poi anche nei panni di una spassosa cameriera che grida terrorizzata alla vista del Commendatore lapideo). Vibranti anche i più giovani, Marta Cortellazzo Wiel (nei panni della popolana Maturina, la quale conduce – “pallone gonfiato” al centro – un blateratissimo match di ping pong contro Charlotte) e Vittorio Camarota (il minore Alonso, il cui violento impeto sul fratello fa quasi temere allo spettatore che abbia davvero stecchito il collega). A vestire infine gli abiti gertrudei di Elvira è Giordana Faggiano, che chiude l’ensemble.

Un ottimo cast, per gran parte cavato dalle ceneri della Popular Shakespeare Kompany di Binasco. Sebbene infatti “Don Giovanni” annoveri soltanto «un paio di ruoli principali e un paio di secondari mentre tutto il resto sono piccolissimi ruoli», anche queste parti minime appaiono ugualmente rivelatrici ed epifaniche: «Io credo molto alla regola dell’“uno più uno fa tre”, che ho imparato dal cinema. […] Se passa un personaggio minore che dice una frasettina da nulla, ma che è [comunque] in grado di portare con sé un pezzo di vita che non appartiene alla scena, bensì soltanto a lui stesso, allora “uno più uno fa tre”: fa fare cioè alla scena una capriola e la conduce in una direzione che non era prevista». Insomma sono attori portatori di “(dis)grazia” quelli che intravediamo sul palco del Carignano. E lo sguardo registico scorre rapido su di loro come una cinepresa: luci, scena, abiti e musica li avvolgono con un abbraccio filmico, emotivo ed incisivo.

Photo: Donato Aquaro

Partiamo proprio dai Leitmotiv sonori: accanto alle melodie curate da Arturo Annecchino, Binasco sceglie di porre un paio di note vivaldiane, così da ottenere una disordinata commistione tra tradizione sei-settecentesca e contemporaneità (questo anche grazie ai bei costumi di Sandra Cardini: felpe, giubbotti di pelle, bluse).
La musica ha un ruolo fondamentale nell’allestimento, giacché – non limitata a pura decorazione – riesce a colmare i vuoti verbali dei pur ciarlieri personaggi. È appendice della parola nel canale acustico, esprime l’inesprimibile e l’inespresso: alla musica viene dunque affidata una funzione “essoterica”, rivolta ciò verso l’esterno, verso il coro dei profani/spettatori, a cui la trama è ben nota ma è ancora preclusa la conoscenza vera, profonda dei caratteri sulla scena.

Di forte impatto anche le scenografie, piece of work by Guido Fiorato. Nel primo atto i personaggi si muovono in uno stanzone, a metà tra il postribolo e la kasbah, ricavato nell’ala più remota di un qualche palazzo in rovina. Drappi, arazzi, pareti sgretolate, materassi a vista. Sembra la camera oscura di un ripugnante voyeur o la scena di un crimine carnale. Sullo sfondo luci bluastre e zone d’ombra.
La vicenda si sposta poi, nel secondo atto, nella locanda/bar gestita da Charlotte: l’atmosfera è quella di una tavernetta di paese. Filari di luci al neon, porta sospesa, tavolini, giocatori. Altri elementi scenici di grande interesse sono l’abnorme luna alle spalle dei protagonisti (probabilmente, porta degli inferi) e lo spazio dove si svolge l’eponimo festin de pierre, il convito di pietra.

Si noti, peraltro, che in francese vi è un chiaro errore, non potendo certo essere “di pietra” un banchetto; Molière accetta il sottotitolo con riferimento giocoso a Pierre, che allude tanto al nome del Commendatore quanto al materiale di cui è fatto. Da ricordare ancora che il Poquelin conosceva l’argomento grazie ai canovacci dei comici dell’Arte operati a Parigi e non tanto dalla lettura diretta dell’originale attribuito a Tirso (in realtà, molto più probabilmente opera del sivigliano Andrès de Claramonte), di cui comunque Binasco recupera il prologo, come dichiarato dai soprattitoli, sia pur celandolo, separandolo da noi, attraverso un velo opaco.

La breve parentesi storica ci permette di arrivare spediti al cuore dell’opera, all’ingombrante Don Giovanni. Spogliato delle sovraletture che lo hanno soffocato nel corso dei secoli (e di quegli accenti conferitigli pochi anni fa da Filippo Timi e ancora vivi nella nostra memoria), il personaggio di Gobbi torna ad essere, nella sua “purezza”, uomo prima che archetipo. Essenza vitale barocca (opulento, tracontante, verboso, sibillino) prima che simulacro universale.
Nel 1922 il poeta lituano Oscar Vladislas de Mislosz compose un suggestivo mistero dal titolo “Miguel Mañara”: in esso Don Giovanni moriva addirittura in beatitudine, recluso in convento. Scrive Franco Perrelli a tal proposito: «L’uomo che cerca disperatamente di possedere è infine posseduto da Dio, “consumato” dall’amore per Dio: “Nulla è bello, tranne il mio amore per Te. Il sogno è svanito, la passione è fuggita, il ricordo s’è cancellato. Amore è rimasto”».

Similmente Gobbi/Juan, per ammissione del suo stesso Padre (Binasco, ma prima ancora Molière) è un uomo sì istintivo e carnale, ma non per questo meno timorato di Dio: un bamboccione petulante al quale si scaglierebbe volentieri addosso una pietra (e questa capacità di infastidire a tal punto l’animo dello spettatore è un vero e proprio merito dell’attore), che tuttavia nutre smanie sovrannaturali. «Credo che il senso nascosto del testo – conclude Binasco – sia la fuga da Dio, cioè un percorso opposto a quello degli eroi, che è la ricerca di Dio. […] Forse tutto preso com’è nella sua fuga, fa quello che Bateson chiamerebbe il suo errore tragico: è convinto che il contrario di Dio sia il Male. Quindi si mette a fare il malvagio. Lo fa per rifiuto di Dio, come un adolescente si ribella al padre. Fa quello che vive solo per divertirsi (e magari si diverte davvero), e che se ne frega di tutto e di tutti, ma sono sicuro che porta con sé il tormento di quello che ha rifiutato. Insomma si direbbe quasi che non sia un vero ateo [come sembrerebbe invece emergere dalla scena in cui costringe un reietto a bestemmiare n.d.r.]: piuttosto, è incazzato con Dio».
Ripulito e contaminato, il Don Giovanni di Binasco è un uomo sull’orlo di sé stesso, inquietamente sospeso al di sopra del proprio abisso. In fondo, dunque, l’anti-simbolo (letteralmente, il diábolos), un archetipo esaurito. Con vezzo grecista, si direbbe un “escatotipo”.

“No, no, non sarà mai detto ch’io mi penta, qualsiasi cosa accada”.
Uno spettacolo da vedere e rivedere.
Fino al 22 aprile a Torino.

DON GIOVANNI
di Molière
con Fabrizio Contri, Lucio De Francesco, Giordana Faggiano, Elena Gigliotti, Gianluca Gobbi, Nicola Pannelli, Fulvio Pepe, Sergio Romano
e con Vittorio Camarota, Marta Cortellazzo Wiel
regia Valerio Binasco
scene Guido Fiorato
luci Pasquale Mari
costumi Sandra Cardini
musiche Arturo Annecchino
assistente regia Nicola Pannelli
assistente scene Anna Varaldo
assistente costumi Silvia Brero
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

durata: 2 h 05′ (con intervallo)
applausi del pubblico: 4” 13′

Visto a Torino, Teatro Carignano, il 5 aprile 2018
Prima nazionale

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