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Don Juan in Soho di Gabriele Russo. Pro e contro di una messa in scena kitsch

Photo: Teatro Bellini

Photo: Teatro Bellini

A Genova il progetto di Patrick Marber ispirato al Don Giovanni di Molière prodotto da Fondazione Teatro Di Napoli – Teatro Bellini

Nella lunga storia del teatro occidentale esistono alcune figure, che spesso coincidono con dei personaggi, che hanno conosciuto talmente tanto successo da diventare dei miti. Tra questi, il teatro moderno ha un grosso debito verso quelli che nascono dal confronto fra la vivissima figura dell’uomo-personaggio-attore e la morte, identificata non a caso con il teschio.
Il professor Roberto Cuppone, nelle sue lezioni di Drammaturgia e di Antropologia teatrale all’Università degli Studi di Genova, identifica i tre miti in questione nelle figure di Faust, Amleto e Don Giovanni.
Nel confronto con l’aldilà, ognuno di questi ha un atteggiamento ben definito, che ne identifica quelle caratteristiche che ne contraddistingueranno, in saecula saeculorum, i tratti distintivi.

Faust tiene il teschio sul suo scranno di professore; Amleto lo tiene in mano riconoscendone il sorriso di Yorick; Don Giovanni, possiamo dire, ci inciampa sopra, lo incontra per sbaglio e lo tratta con sprezzo estremo.

Da Tirso de Molina (ma anche prima, nei canovacci dei comici dell’arte) in poi, passando da Molière e dal librettista Lorenzo Da Ponte per Mozart, Don Giovanni è protagonista di una serie di riscritture che vanno pian piano delineandone una personalità edonista, materialista, cinica, incorniciata all’interno di una storia tragica dipinta da commedia, una vicenda di scambi di personalità e costumi, di prese in giro e giochi degli inganni, che conduce a una chiusura funerea con la morte del protagonista, che incontra in faccia l’aldilà invitando la morte stessa a cena, il convitato di pietra, per poi restarne irrimediabilmente folgorato.

Per questa riscrittura del 2007, modellata principalmente sul testo di Molière, il “Don Juan in Soho” del drammaturgo inglese Patrick Marber (già autore di “Closer” e sceneggiatore di “Diario di uno scandalo”) compie un’azione di attualizzazione della storia, ma – attenzione – non del mito, non solo ai giorni nostri ma anche, come ben anticipato dal titolo, nella Londra più festaiola e viziosa. Un presente fatto di escort, droga, cellulari, sesso, orge, soldi, vegani e arrampicatori sociali.

Il testo è una gigante e coerente riscrittura di un classico occidentale, ma anche la dissacrazione di un mito laico legato all’istituzione conferitagli da fama e prestigio dopo quattro secoli di presenza sulle scene: Marber scrive una riduzione sì verso il reale, ma soprattutto verso il piccolo, trasformando il Don Giovanni da mito intoccabile a D.J. (l’abbreviazione di Don Juan nel testo), da lussurioso a erotomane, da edonista a tossicodipendente, da egotista a egoista, da martire della laicità a semplice vittima di sé stesso.

Una riscrittura del genere, molto stratificata, in alcuni punti geniale e in altri un po’ faticosa, è senza dubbio interessante – specie se si è freschi di un’attenta rispolverata a Molière – , ma forse avrebbe bisogno di mostrarsi nuda e cruda, scarna, semplice allo spettatore che vi si approcci per la prima volta. Eppure, la scelta registica di Gabriele Russo per il “Don Juan in Soho”, prodotto dalla Fondazione Teatro Di Napoli – Teatro Bellini, va in tutt’altra direzione.

Lo spettacolo è confezionato in una chiave pop-kitsch con un allestimento di portata barocca in quanto a grandeur spettacolare grazie alle soluzioni sceniche firmate da Roberto Crea: un’ampia piattaforma quadrata rotante, quasi sempre in movimento, sulla quale vengono calati dall’alto i props e gli arredi scenici, oltre a tende e fondali in pieno stile musical. Altrettanto le luci, in perfetta sincronia con la scelta scenografica, creano momenti di rilevante novità cinetica: ne è un esempio la scena delle escort e D.J., che consiste in un roteare infinito di fotogrammi e personaggi sotto lo stesso cono di luce, a mostrare nient’altro che frame, quadri, vignette.
In realtà l’estetica a cui rimanda più frequentemente la testa dello spettatore è quella del fumetto, o forse del cartone animato: a volte pare che gli attori si muovano come nello storyboard di un film o di un cartoon, ma l’idea del fumetto è il richiamo preponderante in generale.

La scelta del brano “Edamame” di bbno$, hit della scorsa stagione che accompagna l’ingresso di Don Juan, poi richiamata nei saluti finali come una vera e propria sigla, è la metafora precisa della scelta poetica di questa rappresentazione: il leggero più frivolo che ci possa essere, il colorato più estremo, più bizzarro, un brilluccichio accecante accompagnato dall’interpretazione degli attori, tenuta sempre molto sopra le righe, con toni comici molto alti, al limite del sostenibile. Il tutto all’interno della scatola scenica/botola aperta sull’orrore dell’apparire e sulla brama di D.J. di prendersi tutto (o tutte) quello che desidera.

Il D.J. interpretato da Daniele Russo è un dandy narciso di mezza età, orecchino e capelli ossigenati, affascinante e riluttante allo stesso tempo, un adone magnetico e riprovevole intorno al quale si regge tutto lo spettacolo, centro gravitazionale di un universo scenico che vive in funzione di lui e che il protagonista vuole piegare al suo desiderio, spesso riuscendoci con poco sforzo, agendo da vera entità fallo-centrica e dominatrice.

A proposito di fallocentrismo, la questione della donna in questa rappresentazione si fa un po’ problematica, soprattutto nella già citata scena delle escort, momento di alto squallore tragico-drammaturgico, in cui le due donne diventano oggetto sessuale prostrate alle perversioni del cliente pervertito, e diventano il correlativo oggettivo del desiderio di D.J., che niente altro è che l’epifania materiale di ciò che mostrano e hanno mostrato fino ai giorni d’oggi i media: bellissimi corpi in striminziti abiti di paillettes che mostrano e ammiccano, agendo sulla liminalità tra lecito e illecito, tra soft-porn e hardcore.

In questo gran pastiche colorato, vorticoso e trash, cifra distintiva di questa messinscena, una nota sicuramente felice è il lavoro di Alfonso Postiglione, che interpreta uno Stan/Sganarello non solo macchietta o caratterista, ma ben scolpito nel suo rapporto di dipendenza tossica (economicamente e affettivamente parlando) dal suo padrone, dipingendo un personaggio comico e malinconico, una sorta di Pierrot partenopeo pragmatico ma senza scampo, destinato a non cambiare il proprio futuro per sua stessa colpa e volontà.

Come possiamo porci nei confronti di questo allestimento? Se da una parte è lodevole il coraggio e la leggerezza mostrata da Gabriele Russo (e dalla produzione del Teatro Bellini) nel confezionare un prodotto leggero, colorato, pop, con richiami al ridicolo veramente poco sottili (come la scena della fellatio in cui la sala del parterre genovese – rinominato per essere particolarmente freddo e critico – è esplosa in una clamorosa risata vibrante), l’altra faccia della medaglia è che in mezzo a cotanto colore, risa e paillettes si perde forse la profondità dei personaggi, molto appiattiti, a volte semplice decoro, come nel caso della Statua, che perde completamente le caratteristiche di imago mortis in favore delle fattezze pacate e suadenti di uno spiritello fatato, oppure di Elvira, deludentemente insapore nonostante i buoni potenziali offerti dal copione.

Riassumendo, si rimane al contempo sorpresi e delusi, colpiti nel vedere il personaggio mitico ridursi a vittima della sua fame di sesso e di vita, inghiottito in una voragine solcata da lui stesso, ora in vestaglia di seta, ora in perizoma luccicante, ora seduto sul proscenio a fumare uno spinello, ma un po’ amareggiati di poter andare poco oltre la risata e il coup de théâtre, in questo quadro sgargiante e straboccante ma con, ahinoi, troppi colori, poche pause e troppi pochi chiaroscuri.

DON JUAN IN SOHO
di Patrick Marber
ispirato al Don Giovanni di Molière
traduzione a cura di Marco Casazza
con
Daniele Russo – Don Juan
e con (in o.a.)
Alfredo Angelici – Pete
Noemi Apuzzo – Elvira
Gaia Benassi – Lottie
Claudia D’Avanzo – Mattie/Dalia
Gennaro Di Biase – Vagabondo
Carlo Di Maro – La Statua
Sebastiano Gavasso – Aiace
Mauro Marino – il Padre
Alfonso Postiglione – Stan
Arianna Sorrentino – Ruby
Gianluca Vesce – Colm
scene Roberto Crea
costumi Chiara Aversano
disegno luci Salvatore Palladino
progetto sonoro Alessio Foglia
regia Gabriele Russo
produzione Fondazione Teatro Di Napoli – Teatro Bellini

durata: 1h 45’
applausi del pubblico: 4’

Visto a Genova, Teatro Ivo Chiesa, il 22 gennaio 2023

 

 

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