Da Dostoevskij a Loris, l’afflato visionario di un uomo ridicolo

Mario Sala (photo: Erica Falcinelli)
Mario Sala (photo: Erica Falcinelli)

La conoscenza della vita e della felicità è più importante della vita e della felicità. Ciò che rende una vita degna di essere vissuta è la possibilità di scegliere. E forse il nostro non è il peggiore dei mondi possibili, pur con gli eccessi di malvagità e dolore che lo caratterizzano. La felicità su questa terra dipende da noi. Ed è preferibile una gioia instabile, arpionata attraverso il libero arbitrio, a un’estasi immobile proiettata in un orizzonte utopistico e prevedibile.
La conoscenza ci rende consapevoli ma meno candidi. Ci inchioda alle nostre fragilità facendoci perdere l’Eden. È questo il senso della cacciata dal Paradiso nella Bibbia.

In “Sogno di un uomo ridicolo” di Fëdor Dostoevskij il peccato è connaturato all’uomo. È una minaccia costante. Il seme del male resta latente per una breve parentesi. Poi torna a germinare, accolto da sguardi compiaciuti. Il male possiede una tragica forza assertiva, ma non è condanna definitiva e inoppugnabile.

Nella produzione Teatro Out Off di “Sogno di un uomo ridicolo”, di e con Mario Sala, regia di Lorenzo Loris, con il contributo alla drammaturgia di Fausto Malcovati, il protagonista è un uomo in disarmo. Si sente inetto e deriso.
Egli si materializza sul palco da un retroscena grezzo. Sulla scena, contornata dal pubblico disposto perpendicolarmente alle quattro diagonali, campeggia una poltrona logora. Quest’uomo senza nome, ridicolo appunto, lacero, esce dagli anfratti del teatro strusciandosi a pilastri scrostati. Si muove con andatura incerta. Cappello di feltro alla Van Gogh, occhi stralunati, naso rubicondo da clown, vestito come uno spaventapasseri, sembra un barbone in stato di shock etilico. Voce gracida, acuti striduli, parole biascicate, erre moscia strisciante, egli si presenta come un simulacro con un piede nell’oltretomba. Umiliato, stanco, derelitto, pensa infatti al suicidio.
È il richiamo salvifico di una bimba a destarlo dal torpore. Quel grido di lacrime è rigurgito vitale che rimbalza sulla sua stanchezza solitaria.
Il riflusso autodistruttivo persiste, ma si dispiega in una dimensione onirica. Quest’uomo sogna di uccidersi e di essere sepolto. Poi di svegliarsi sotto terra per un insistente gocciolio sulla sua testa. Egli esce dalla bara e si lancia in un grande volo nello spazio. Giunge su un altro pianeta del tutto simile alla Terra, ma popolato da uomini sereni e felici che praticano il bene e lo vivono con pienezza. Questi esseri conoscono la verità e l’amore. Ma l’armonia non è perfetta, la serenità non dura. È lo stesso protagonista a contaminare con odio e brutalità la nuova terra. Il primo sangue versato innesca una scia di dolore e violenza. La corruzione ha il sopravvento. Ogni valore civile e morale si sfalda.

Quello del sogno è un leit-motiv nella poetica di Dostoevskij, che nasconde la speranza che dalla ferocia fiorisca una nuova epoca d’equità e pace.
È la forza dell’utopia. La forza della regia sta invece nella scelta di Loris di aprire il sipario che nascondeva la platea. Il nostro sguardo si allarga alla sala deserta. L’uomo ridicolo fa capolino tra le poltrone vuote. Diventa credibile e serio nell’atto in cui riconosce la propria follia, e stigmatizza le brutture dell’angosciante mondo contemporaneo che ha contribuito a creare.
C’è quindi il riferimento tutto dostoevskijano alla bellezza che salva il mondo. Che qui si traduce in un atto d’amore per il teatro, oltre che per la vita e l’umanità.
La visione cupa e disperata dell’uomo lascia spazio a un bagliore che diventa più consistente e rasserenante, supportato dalle luci tipicamente azzurre di Loris e dalle musiche distensive di Brian Eno.

Quando dalla dimensione presente ci si sposta in un orizzonte onirico, e si ritorna al presente edificati, ogni male sembra superato. L’uomo si riabbandona all’afflato mistico, dove trionfano bene e verità. La prospettiva visionaria di un clown purificato dall’amore e dal candore riconducibile all’infanzia, diventa salvifica.

Il monologo è una sfida anche per l’attore più consumato. Ne avevamo apprezzato due anni fa una lettura scenica di Roberto Trifirò. Si abbinava perfettamente alle inquietudini esistenziali di quell’artista, rispecchiandone le ossessioni di una vita permeata dal dubbio.
Sala incarna invece i poeti tra genio e follia che vivono la lacerazione fra se stessi e la società. Forse limitare alcune sovrascritture nei costumi, nel trucco, nella recitazione (sbilanciata sul registro buffo e farsesco), nell’uso a tratti didascalico di luci e musiche, avrebbe meglio trasferito allo spettatore la portata dissacrante e caustica del testo. Il ridicolo e il folle che Dostoevskij libera nella sua opera ci sembrano condizioni più dell’anima che dell’esteriorità.

IL SOGNO DI UN UOMO RIDICOLO
di Fëdor Dostoevskij
Traduzione e drammaturgia di Fausto Malcovati e Mario Sala
regia Lorenzo Loris
con Mario Sala
scena Daniela Gardinazzi,
costumi Nicoletta Ceccolini
luci e fonica Luigi Chiaromonte
consulenza musicale Ariel Bertoldo,
collaborazione ai movimenti Barbara Geiger
assistente alla regia Davide Pinardi
Interventi pittorici in locandina di Giovanni Franzi
Produzione Teatro Out Off

durata: 1h 5’
applausi del pubblico: 3’

Visto a Milano, Teatro Out Off, il 1° giugno 2019
Prima nazionale

0 replies on “Da Dostoevskij a Loris, l’afflato visionario di un uomo ridicolo”
Leave a comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *