Esiste una drammaturgia al femminile? E se esiste, come si manifesta, quali caratteristiche ha, come si muove?
Iniziamo un percorso sull’argomento, che si svilupperà in tre puntate, andando alla ricognizione di drammaturghe italiane che lavorano nel nostro Paese ma non solo.
Queste domande le abbiamo oggi rivolte a tre giovani donne con percorsi assai diversi tra loro: Magdalena Barile, autrice multiforme che collabora spesso con la compagnia Animanera, e di cui Klp ha visto da poco il nuovo “Un altro Amleto”, Francesca Garolla, abituale collaboratrice dei lavori di Teatro i con il regista Renzo Martinelli (e firma dell’altrettanto recente “Piangiamo la scomparsa di Bonn Park“), e Chiara Boscaro, drammaturga impegnata in quest’ultimo periodo nel progetto “Pentateuco” con la sua compagnia La confraternita del Chianti, il cui terzo capitolo, “Levitico”, debutta stasera al Teatro Verdi di Milano, in scena fino al 3 aprile.
Esiste una drammaturgia coniugata al femminile? Se sì, cosa la contraddistingue?
BARILE Una scrittura al femminile esiste senz’altro. Ci sono differenze sostanziali fra i generi e la cosa non può che riflettersi sul loro modo di creare e scrivere.
Esistono le differenze e purtroppo esistono anche i pregiudizi. E’ solito vedere le donne che scrivono incasellate nei territori della famiglia, degli affetti, dell’intimità, lontane da una visione storica ampia o dalle grandi azioni politiche che cambiano il mondo.
Come autrice donna rivendico uno sguardo più periferico, lontano dall’enfasi della retorica e da quel che resta delle ideologie del ‘900. Uno sguardo che non sempre coglie le azioni quando accadono ma il loro riflesso, una visione che fantastica sulle ombre di quelli, soprattutto maschi, che si affannano ancora ad agire credendo di essere al centro di ogni cosa.
La drammaturgia femminile esiste ed è fortunatamente un mondo variegato. In Italia oggi moltissime donne si occupano di cultura e fruiscono la cultura molto più degli uomini, basta andare a un evento in libreria o a teatro e contare le teste… ma ancora sono gli uomini a pubblicare di più e a venire riconosciuti dagli altri uomini come unico possibile canone letterario. La letteratura femminile deve smettere di essere un genere ma si deve imporre con la sua universale diversità.
GAROLLA Io credo che esistano delle drammaturghe, più che una drammaturgia al femminile. A meno che non si ritenga che ci siano temi più maschili ed altri più femminili. Ma anche se fosse, fatico a fare questa distinzione. Parlare di maternità è un tema solo femminile? Davvero non riguarda minimamente gli uomini? Anche l’attualità sembra dirci il contrario. La realizzazione di sé è un tema solo femminile? E cosa c’è, invece, di solo maschile?
Non so, non credo alle definizioni in generi o di genere, qualunque esse siano. Ovviamente il fatto che io sia donna influenza la mia scrittura, ma quanto il fatto che io abbia più di trent’anni, sia italiana, lavori in teatro, abbia fatto e visto alcune cose e non altre.
BOSCARO Non lo so. Esistono diverse sensibilità. Il teatro è un lavoro di squadra, per fortuna: più sono le sensibilità che compongono la squadra, meglio è.
Mi è capitato di scrivere insieme ad autori maschi, e sempre ognuno ha portato un punto di vista diverso dal mio. Ma è accaduto perché ero femmina o perché eravamo autori diversi con una diversa storia alle spalle?
Chi fa teatro è cresciuto studiando testi scritti soprattutto da autori maschi, e nessuno si è mai posto il problema della loro sensibilità proprio perché non esisteva la “concorrenza”. Ma chissà cosa diremo tra cinquant’anni, quando potremo operare un confronto vero, basato su un campione di testi statisticamente equilibrato?
Se esiste mi impegno a risponderti tra cinquant’anni.
Come scegliete gli argomenti da mettere in scena?
BARILE Parafrasando Edward Bond, sarebbe immorale di questi tempi non scrivere di violenza. Il teatro di per sé è basato sul conflitto, è uno strappo, è già violenza. Gli altri argomenti vengono da soli, talvolta sono commissioni o spunti, più raramente urgenze personali. Le scelte più gravose da mettere in scena riguardano sempre l’aspetto formale, il “come” più che il “cosa”. Quale sarà la lingua che parlerà in scena? Quali le regole del gioco? In questo senso l’esercizio delle riscritture dei classici è molto utile alla pratica drammaturgica: ci si allena nell’individuare nei testi immortali quei conflitti drammatici che ancora parlano la nostra lingua (anche se sono stati scritti 600 o 3000 anni fa) e si lavora a costruire un ponte, un dispositivo drammaturgico che faccia risuonare quei conflitti nelle nostre vite, nei nostri corpi.
GAROLLA La mia scelta non nasce necessariamente da un processo razionale o logico, piuttosto da una suggestione, una intuizione, qualcosa a cui inizio a pensare, e solo dopo afferro veramente.
Quello che voglio scrivere spesso si modifica mentre lo scrivo.
Parto da un tema che conosco, che mi riguarda, che ho abitato per un po’, e quel tema si radica in me. Spesso le tematiche o gli argomenti che affronto sono molto ampi – la separazione, l’affermazione di sé, la relazione con l’altro – e allora li contestualizzo nella mia esperienza e nella mia memoria: quella cosa che mi è successa, quell’altra cosa che mi hanno detto, ciò che ho attraversato o semplicemente visto. Ma a un certo punto tutto questo mi sembra troppo poco, e allora cerco riferimenti che rendano universale l’esperienza individuale, vado a rubare al mito, alla tragedia classica, alla storia del teatro, alla filosofia.
Parto da me e provo ad arrivare ad altro da me.
BOSCARO In Accademia dicevano che ero “quella delle cose civili”. Non so cosa volessero dire. Di sicuro, del teatro mi interessa l’accezione (piuttosto antiquata) di specchio della comunità. E avendo la fortuna di lavorare stabilmente con una compagnia (La Confraternita del Chianti) che la pensa come me, possiamo permetterci progettualità a lungo termine. All’interno di un progetto, gli argomenti si raccolgono naturalmente intorno a dei nuclei tematici, con rimandi che spesso non sarebbero possibili in un singolo lavoro. Nel progetto “Pentateuco” il macrotema è la migrazione, che ci coinvolge come cittadini europei, come potenziali cervelli in fuga, come propaggini di famiglie disperse per il mondo… ma avendo a disposizione cinque spettacoli, possiamo declinare ogni singola sfaccettatura con stili e linguaggi diversi.
Come vi rapportate con il regista e gli attori? In che modo adattate il testo alla scena?
BARILE Ho lavorato con diversi registi e di volta in volta ho testato metodi di lavoro differenti. Spesso deludenti. Non è un caso che spesso gli autori in Italia finiscano per farsi le regie da soli. I registi che vogliono fare drammaturgia contemporanea, bontà loro, spesso si scordano che l’autore è vivo e che la messa in scena del suo testo sarà necessariamente una visione partecipata, non un viaggio in solitaria. Mi fanno un po’ ridere quei registi che scelgono un testo contemporaneo e poi ci vogliono andare “contro”. Allora scegli un testo classico!
Diverso il discorso per gli attori. Se scrivo teatro lo faccio soprattutto per l’incontro con gli interpreti, che sono quelli che portano sulle spalle il carico maggiore della scrittura scenica. Un bravo drammaturgo dovrebbe essere come un buon allenatore, dovrebbe sapere che muscoli far lavorare prima della performance. Lo scambio, il passaggio di testimone fra autore e attore è per me alla base di ogni processo teatrale. Siamo privilegiati, come autori, quando, scrivendo, conosciamo già chi andrà in scena con le nostre parole. Il testo si adatta alla scena e la scena si adatta al testo. E’ uno scambio, un incontro che genera immagini e possibilità. Non importa quanto la struttura drammatica di un testo che scrivo sia serrata; i testi pensati per la scena devono essere per loro natura aperti, ariosi, pensati per accogliere quanta più realtà ci si riesce a sedimentare, corpi, azioni, mutamenti.
La drammaturgia è una letteratura ibrida che ha bisogno dello spazio, del tempo e dei corpi per prendere davvero fuoco.
Ogni volta che un testo va in scena, viene riscritto daccapo. La scrittura di scena esiste ed è il culmine della scrittura teatrale: è un’attività collettiva che si svolge in uno spazio prove con attori, regista, scenografi, disegnatori luci e costumisti.
GAROLLA Mi colpisce e arricchisce vedere interpretazioni diverse, messinscene diverse, addirittura sentire il testo in una lingua differente dalla mia.
Io non ho mai un’idea precisa riguardo a come dovrebbe essere realizzato un mio testo, ho curiosità. La mia è una parola di carta, quella del regista e degli attori è una parola tridimensionale.
Lo spettacolo è un altro testo, non esattamente il mio, perché io scrivo da sola nella mia cameretta e quando ho finito “consegno”, in un certo senso ho finito la mia parte. Solo allora divento dramaturg, ed è lì che per me inizia la scrittura di scena, che non solo esiste, ma è imprescindibile: il testo passa dalla carta al palcoscenico, dove le parole sono solo uno dei segni a disposizione.
BOSCARO È un rapporto speciale. Prendo sempre parte almeno alle prove a tavolino, se un mio testo è in allestimento. Anzi, credo che un testo sia chiuso e pronto per le stampe solo dopo il primo allestimento. Il rapporto con i registi parte già dalla scrittura: la didascalia è uno strumento di dialogo tra drammaturgo e regista, ma va progettata bene, o rischia di risultare fuorviante.
I testi che nascono per le regie di Marco Di Stefano (regista della Confraternita e mio compagno nella vita), ad esempio, di didascalie non ne hanno: sono materiali di lavoro aperti ai contributi scenici della compagnia, composta anche dagli attori Valeria Sara Costantin, Giovanni Gioia, Marco Pezza, Diego Runko e Giulia Versari.
Con altri registi il rapporto è diverso. Quando ho lavorato a “Atti unici da Anton Čechov” per Roberto Rustioni, ho condiviso la sala prove con gli attori per tre mesi, arrivando a creare insieme a loro un canovaccio pronto a sostenere uno spettacolo improvvisato ogni sera. E lì le didascalie del testo (originale) le abbiamo utilizzate per impostare le partiture coreografiche.
Quando mi viene richiesto un intervento da dramaturg cerco di leggere il testo come se fosse la cosa più lontana da me. Lo analizzo, studio l’autore, identifico i lineamenti della storia (sì, mi piacciono le storie), dei personaggi, delle tematiche e preparo per la compagnia una “bibliografia” più ampia possibile, e poi mi confronto con il regista. Come vuole lavorare sull’allestimento scenico? E sulla recitazione? E sul linguaggio? Possiamo creare insieme una griglia, una struttura in cui incorniciare non solo le parole, ma i simboli, gli oggetti, i gesti, il rapporto con il pubblico? La griglia cambierà, arriveremo alla versione 45.3 e oltre, ma almeno sapremo dove stiamo andando.
Esistono innumerevoli scritture di scena, una diversa per ogni spettacolo.
Dovete reinventare un Otello. In che modo lo fareste?
BARILE Otello è famoso per essere il dramma della gelosia. Invece è la tragedia della lingua: il fallimento del linguaggio amoroso a favore della violenza e dell’irrazionalità. L’intrigo di Iago ha la meglio sull’amore romantico perché l’alfabeto dell’intrigo e del possesso è più forte di quello della fiducia e dei sentimenti. Credo sia tutt’oggi un concetto molto attuale.
GAROLLA Per me Otello è il dramma della realtà che uccide la finzione, e viceversa. Otello uccide Desdemona e questo è un atto molto più potente, concreto, e perciò reale, del tranello di Iago che scatena il delitto. Al contempo la finzione di Iago determina la realtà dei fatti di cui è vittima Desdemona. E allora, è la realtà che sovrasta la finzione o viceversa?
Alla fine Desdemona è solo strumentale a questo assunto, alla scientificità della costruzione drammatica, è inconsapevole della realtà e inconsapevole della finzione.
Ecco, se reinventassi Otello partirei da questa caratteristica di Desdemona: una piccola Truman inconsapevole dello show in cui sta vivendo e del tutto inconsapevole di quale sia la realtà che lo determina.
BOSCARO Ho sempre odiato l’espressione “dramma della gelosia”. Per me Otello è un “dramma della solitudine e dell’insicurezza”. È un’espressione meno bella, ma mi piacerebbe riscrivere un Otello borghesissimo a partire da tre monologhi interiori (Otello, Desdemona, Iago) che non si incontrano mai.