Alla Centrale Fies i Live Works 23 per un festival fuori formato

Soukaina Abrour (ph: Alessandro Sala)
Soukaina Abrour (ph: Alessandro Sala)

A Dro la curatela della performing art è una pratica di agopuntura sociale

“Questo non è un posto per discriminazioni o molestie di alcun tipo. Diciamo no al razzismo, al sessismo, alla transfobia, all’omofobia, alla grassofobia, all’abilismo e a tutte le altre forme di discriminazione. […] Ognuno porta in questo luogo esperienze diverse. Cercate di ascoltare e accettare la diversità […]. Abbiate consapevolezza delle vostre intenzioni e prendetevi cura delle altre persone”.
Questo è l’unico dress code che si richiede di rispettare una volta varcato il torrente Sarca ed entrati negli spazi dell’ex centrale idroelettrica di Dro (TN): un abito mentale intessuto di tolleranza, rispetto, tatto, astensione da giudizi stigmatizzanti, disponibilità alla comprensione. Ingredienti necessari anche per entrare in risonanza con le proposte artistiche decisamente originali e fuori dagli schemi che caratterizzano Centrale Fies. Che non ha bisogno di presentazioni: se lo spazio è stato riconvertito da 21 anni a centro di produzione artistica ed hub culturale, il managementDino Sommadossi, Barbara Boninsegna e la cooperativa il Gaviale – ha una storia operativa sin dal 1980 nel solco della sperimentazione artistica e di sollecitazioni internazionali.

In questo laboriosissimo arco di tempo, l’attività della crew si è ciclicamente rinnovata ponendosi sempre nuove sfide. L’ultima, nel 2020, ha archiviato il format del Drodesera festival a favore di un “fuori formato festival”: la one shot estiva sembrava infatti consumare il lento processo creativo in una rapida overdose. Il festival tradizionale è pertanto “esploso” da una parte in una serie di incontri diluiti durante l’anno, dall’altra in un’estate scandita da più sessioni concentrate; l’esposizione dei risultati degli artisti e la condivisione dei processi creativi hanno subìto quindi un processo di rallentamento, antitetico alla velocità consumistica a cui anche la cultura è sottoposta, favorendo sia una frequentazione meno occasionale e più consuetudinaria della Centrale, sia un confronto coi suoi ospiti più rispettoso del loro impegno.

Ma c’è ben di più. A pelle si ha l’impressione che la familiarità decennale con forme espressive d’avanguardia e perciò incomprese, geneticamente cosmopolite, ibride ed aliene ai codici più immediatamente leggibili, marginali rispetto ai circuiti dominanti e di conseguenza fragili (a volte persino effimere), abbia nutrito una sensibilità che negli ultimi anni sta alzando la voce per assumere più dichiaratamente un ruolo a tutela di differenti vulnerabilità, umane e ambientali, ecosistemiche. Come dire: non è più sufficiente proporre esperienze estetiche stranianti, pur con un alto potenziale provocatorio e significativo; una diffusione massiva di certe consapevolezze e pratiche richiede elementi più strutturanti e invita gli operatori culturali ad incidere più a fondo nel discorso pubblico.

Centrale Fies, oggi, quindi appare non più solo uno spazio di curatela, ma anche uno spazio di cura dei soggetti ospitati e di agopuntura sociale, in ultima analisi luogo di presa in carico di alcune emergenze sociali a cui offrire prossimità e dignità, riconoscimento e visibilità. A partire, per esempio, dalle facilitazioni per le donne madri dello staff o dall’inclusione tra i curatori di un’italiana come Mackda Ghebremariam Tesfau, nata a Verona nel 1986 da padre etiope, ora docente universitaria.

A testimonianza di questa più esplicita vocazione, la rassegna di spettacoli e performance è accompagnata da conferenze e workshop che trasformano il precedente festival in una sorta di accademia di comunità, in cui crescono insieme gli artisti stessi, i nuovi fellows, gli spettatori, ma anche la struttura organizzativa ed il suo team. L’esperienza per certi versi prosegue la curiosa “Scuola di diplomazie interspecie e studi licantropici” aperta tra dicembre ed aprile; i relatori degli interventi estivi sono scelti in relazione ai temi o alle tendenze trasversali ai progetti di ricerca artistica selezionati e quindi in sintonia con alcune intuizioni dei curatori (Barbara Boninsegna, Simone Frangi, Filippo Andreatta, Mackda Ghebremariam Tesfau).
Si possono ascoltare interventi sul colonialismo, sulle politiche d’asilo ed integrazione, sull’intersezionalità, sulla narrazione pubblica e la costituzione di immaginari e stereotipi, sul funzionamento della creatività e sui rapporti tra tecnologia e saperi rituali: stimoli molto eterogenei e poco attinenti ad una codificazione stringente del performativo, che tuttavia ne consentono una lettura meno banalizzante.

La prima sessione del “festival esploso” ha ospitato i Live Works, vetrina ormai storica dei talenti selezionati attraverso un bando annuale istituito nel 2013. Quest’anno sono pervenute 400 application da tutto il mondo, da cui sono stati scelti 10 progetti inediti che hanno beneficiato di una residenza esclusiva a Centrale Fies e di momenti di visit studio e di residenza collettiva.
I risultati hanno coperto ampiamente la gamma del performativo: se, infatti, il primato del corpo e della relazione col contesto sono le cifre distintive del genere, a Fies si privilegiano le espressioni connotate da una marcata fluidità e trasversalità rispetto ai linguaggi espressivi ed artistici con una formazione eclettica, non necessariamente prettamente teatrale; si è perciò assistito a commistioni di pratiche relazionali, coreografiche, spoken words ai limiti della conferenza, ricorsi a tecnologie e media nuovi e tradizionali. Nessuna ombra, tuttavia, di tecnofilia. I selezionati si sono distinti per una forte consapevolezza dell’implicazione sociale e politica insita nel performativo. Live, infatti, gioca sull’ambivalenza del termine che significa non solo dal vivo ma indica anche il vivo, ciò che è attinente alla vita e al presente, alle sue dinamiche, alle sue urgenze: in questa edizione, ad esempio, si è parlato di islamofobia, accelerazione capitalistica, svantaggi sociali per malati cronici, lacune della narrazione pubblica, sincretismi multietnici, discriminazione di genere e orientamento sessuale, etc.

Tra i nomi in rassegna, anche Soukaina Abrour, nata in Marocco e cresciuta in Italia, selezionata grazie ad un’altra iniziativa militante di Centrale Fies che, in collaborazione con Razzismo Brutta Storia e il collettivo curatoriale BHMF, da due anni ha istituto la Agitu Ideo Gudeta Fellowship. Per chi non lo ricordasse, Agitu era una donna etiope, emigrata in Italia a causa del suo attivismo politico e rifugiata in Trentino Alto Adige; qui si era distinta per il suo impegno ambientalista e come imprenditrice nell’ambito della produzione casearia; nel 2020 fu trucidata.
La borsa di studio alla sua memoria è una forma di affirmative action, ovvero di discriminazione positiva, che mira ad agevolare artiste e artisti italiani razzializzati o appartenenti a minoranze etniche o con background migratorio, rispetto all’accesso nel mondo delle pratiche performative dove sussistono barriere strutturali tangibili.

A metà luglio un’altra sessione del “festival esploso”, intitolata Feminist futures: si tratta della seconda edizione di un progetto quadriennale nato nell’ambito di apap_Feminist Futures, una delle reti europee più longeve dedicate alle performing art, a cui sono associate 11 realtà partner dell’Unione Europea. La pluralità di futuri prospettati deriva forse dalla matrice intersezionale del movimento, volto a contrastare l’eterogeneità di disuguaglianze – su base di genere, nazionalità o etnia, orientamento sessuale, disabilità, body shape – che inquinano anche le arti performative e sensibilizzare l’opinione pubblica agli schematismi con cui il nostro sguardo filtra ciò che giudica.

Infine, anche la politica degli ingressi si è fatta più attenta ed inclusiva: pay what you want è l’indicazione che si trova in cassa, a partire da un minimo di 5€. Anche questo è senz’altro un fattore che ha catalizzato un pubblico trasversale alle categorie.

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