Edificio 3: Tolcachir e l’impermeabilità dei rapporti umani

Edificio 3 (photo: Masiar Pasquali)
Edificio 3

Un edificio vuoto, praticamente in disuso. Un ufficio in fase di smantellamento come i tre impiegati che ci lavorano. O forse no: sono lavoratori “illicenziabili”, garantiti da una serie di norme e cavilli burocratici. Una microcomunità dentro un limbo, in attesa di cambiamento. Con la paura di ridefinirsi. Con la certezza di ritrovarsi, fuori dell’ufficio, faccia a faccia con la propria solitudine. E allora il posto di lavoro diventa appiglio e surrogato di tutto: casa, famiglia, amore, amici, tempo libero, felicità. Un luogo dove tutto è possibile, quindi un non luogo.

Claudio Tolcachir, 46enne autore e regista argentino, ha portato al Piccolo Teatro Studio Melato di Milano “Edificio 3. Storia di un intento assurdo”, pièce surreale e grottesca che si addentra nel groviglio dei legami interpersonali.
Tolcachir prova a scrostare la patina d’ipocrisia che rende le relazioni impenetrabili. Ma qui l’ipocrisia non è assuefazione alla menzogna, bensì protezione, autodifesa, dissimulazione delle proprie paure e insicurezze.

Il nodo di quest’opera, un po’ dramma un po’ commedia, sta nella complessità. Moni (Valentina Picello), Sandra (Giorgia Senesi) ed Ettore (Rosario Lisma) sono tre colleghi che condividono da anni uno spazio lavorativo nel quale trascorrono buona parte delle proprie giornate. In questo strano ufficio dove si rientra come a casa propria, tra poltrone scrivanie e scaffali mancano i computer. Il monitor che vediamo relegato sopra una scaffalatura è solo un residuo vintage. Stranamente compaiono invece spazzolini, assorbenti, altri prodotti per l’igiene e coperte per il riposo notturno. Le lampade da tavolo assomigliano più ad abat-jour da comodino che a led da scrivania.
Popolano questo spazio anche due strane comparse, mute alla presenza degli altri protagonisti, parlanti nei rari momenti in cui quelli si eclissano. Sono il disincantato Manuel (Emanuele Turetta) e la trasognata Sofia (Stella Piccioni). Sembrerebbero una coppia. Comunicano più con la prossemica e la mimica (sguardi, sorrisi, ammiccamenti) che con le parole.

Ettore, Sandra e Moni si sforzano di superare un isolamento che nasconde tracce profonde d’angoscia e dolore.
Ettore, prossimo alla pensione, è sempre vissuto all’ombra edipica della madre appena deceduta; Sandra vorrebbe diventare mamma senza essere donna pienamente risolta. Moni sembra mancare persino dei beni materiali essenziali: vestita come un uovo di Pasqua, con una gonna che sembra una tovaglia, acconciata come una bambola, vive una vita frivola; prova ad appropriarsi delle vite altrui facendosi amica, aiutante, consigliera, senza porsi il problema di risultare invadente.

Appartenente alla feconda nouvelle vague argentina e fondatore di Timbre 4 a Buenos Aires, Tolcachir racconta nei suoi testi la realtà del suo Paese eternamente in bilico. Ma qui, dietro un testo all’apparenza leggero, ironico, divertente, affiora con chiarezza il tema della molteplicità. I personaggi che credevano di sapere tutto degli altri, si accorgono di conoscere poco persino sé stessi. Il senso d’apparente complicità tra colleghi si accompagna spesso a una sorta di spaesamento, come quando Ettore, all’inizio del dramma, telefona in ufficio e chiede alle colleghe come possa capire se la madre è morta. Una scena che richiama “Lo straniero” di Camus.

L’irriducibilità della vita alla razionalità, la presenza nelle relazioni e nei fenomeni del disordine e del caso, ci inducono ad accettare l’idea della complessità delle vite, delle relazioni indecifrabili e irriducibili a strutture coerenti.
Lo slancio di raccontare con sincerità i propri vissuti esistenziali e psicologici è velleitario. La confessione non è mai immediata, e in genere coincide con un’espressione superficiale dei sentimenti. C’è la difficoltà di trovare un significato alle cose e alla vita, a comporre contraddizioni e conflitti psicologici. L’incontro fisico tra le persone diventa verità e via d’uscita solo grazie all’agnizione finale, determinata più dalla casualità degli eventi che dalla volontà delle persone.

Esorcizzare il pianto con la risata. Parlar di tutto per non parlar di niente. Tra Kafka e Pinter, tra Beckett e Cechov, “Edificio 3” è un lavoro sull’incomunicabilità, sul non detto, sulle parole usate come distrattori. Fuori dal lavoro, questi personaggi non hanno una vita. Senza il lavoro, essi sono solo dei simulacri in cerca di spazi da riempire.
Le luci di Claudio De Pace creano nicchie fuoricampo in cui i protagonisti rivelano il proprio disagio, ostaggi di un falso sé.
Bravissimi gli attori: Lisma che incarna il grottesco e l’ingenuità che intenerisce; Senesi che dà voce alle ambivalenze di una donna insufficiente a sé stessa; Picello impareggiabile nel rendere l’angoscia, le manie, le compunzioni, le fragilità nascoste dietro la leggerezza e l’umorismo di superficie.

EDIFICIO 3
Storia di un intento assurdo
scritto e diretto da Claudio Tolcachir, traduzione Rosaria Ruffini
luci Claudio De Pace, costumi Giada Masi
con (in ordine alfabetico):
Rosario Lisma, Stella Piccioni, Valentina Picello, Giorgia Senesi, Emanuele Turetta
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Carnezzeria srls, Timbre4
in collaborazione con Aldo Miguel Grompone
e con Consulado General y Centro de Promoción de la República Argentina en Milán
Foto di scena Masiar Pasquali

Durata: 1h 30’
Applausi del pubblico: 3’

Visto a Milano, Piccolo Teatro Studio Melato, il 29 ottobre 2021

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