Nel racconto della mia esperienza al Fringe tutte queste cose non possono che intrecciarsi, insieme a tutti gli incontri interpersonali in cui chiunque s’imbatte durante il proprio cammino. Naturalmente il racconto di questa esperienza non può che essere filtrato dal motivo principale che mi ha spinto a prendere un aereo per la Scozia: il teatro. O meglio, curiosità per il teatro. Per come si fa e per come si vive in un luogo che agli effetti, per un intero mese, ogni anno si trasforma in un unicum al mondo e che, grazie soprattutto al Fringe e al suo intrecciarsi a tutte le altre iniziative – al loro condividere, oltre al mio personale DayPlan, in primo luogo spazi e a tutti gli effetti campi d’indagine artistica, platee e operatori, lanci e rilanci mediatici, oltre che sponsor pubblici e privati –, convoglia circa 3000 spettacoli e permea l’intero tessuto urbanistico di Edimburgo.
Perché è forse questa la prima sconvolgente notizia per chi arriva, sia egli spettatore teatrale d’abitudine o d’occasione: una città di circa 270 km² di superficie può trasformarsi in un grande ed esteso teatro, non solo in senso lato o metaforico, ma in 379 venue di ogni genere e fattura.
Camminando per le strade di Edimburgo in agosto si trovano non solo i teatri che per definizione e per stagione sono conosciuti e frequentati durante il corso dell’anno, ma si constata che tutto (in potenza e in atto) si fa luogo di spettacolo: dal bingo alla palestra, dal negozio di musica alla strada, dal pub alla chiesa, dalla National Library al National Museum, dall’aula di anatomia ai Royal Botanic Gardens. Insomma, la città del teatro non è un’utopia.
Come utopica non è l’idea di accessibilità e fruizione popolare della cultura, così come democratici sono la gestione degli spazi e le possibilità promozionali dello spettacolo. Che si tratti di Steven Berkoff, dell’ultimo spettacolo di Mark Ravenhill, di una produzione del Traverse o di una compagnia che ha alle spalle due anni di attività, tutti avranno comunque le stesse quattro righe introduttive all’interno di un programma di 400 pagine. E in una regione che ha inciso nel granito le frasi di poeti e scrittori sul fianco del proprio Parlamento, in una città in cui Robert Louis Stevenson o Robert Burns accompagnano il nostro cammino nel boulevard letterario dei più celebri autori scozzesi, il Fringe trova terreno fertile e ospitale.
Ma soprattutto c’è un senso di aspettativa, di coinvolgimento generale che pervade l’urbanistica e l’immagine di Edimburgo, la vita quotidiana della sua popolazione, ancor prima di tutti gli addetti ai lavori che si aggirano senza sosta per le sue vie, e molto, molto prima di arrivare anche solo lontanamente a toccare i turisti del periodo estivo.
Detto ciò, è giunto il momento di parlare del mio tempo là. Quello che ho visto è quantitativamente poco: 80 spettacoli circa in 20 giorni sono qualcosa come meno del 3% sul totale degli show presenti, numeri che, confrontati con quelli dei veri e propri Fringe’ fan (critici di professione, blogger o ‘semplici spettatori da record’ che si aggiudicano una media di 150-170 spettacoli l’anno) danno un’idea da una parte dell’importanza di ciascuna scelta all’interno del proprio percorso e dell’assoluta unicità di ogni visione, e dall’altra dell’impossibilità reale di tracciare un quadro completo dell’intero e delle sue tendenze.
In sostanza, dietro l’angolo potrebbe esserci il lavoro imprescindibile del secolo ma voi potreste anche non venirlo mai a sapere, e su questo meglio mettersi il cuore in pace fin da principio.
Tuttavia, e paradossalmente, quello che ho visto è anche molto: 80 spettacoli diversissimi tra loro per genere, provenienza, temi, suggestioni, e di cui (fatta eccezione per gli spettacoli italiani presenti al festival) difficilmente avrei potuto anche solo avere notizia in altra occasione. Presupposto facilmente intuibile e da cui la manifestazione trae la sua forza e la sua enorme capacità d’attrazione, e grazie al quale riesce anche a convivere, a confrontarsi e a dialogare con la programmazione dell’Edinburgh International Festival, di cui rappresenta storicamente il controcanto off, e con gli altri festival contemporanei.
Questo il contesto che mi ha permesso ad esempio di assistere alla premiere europea di “Histoire d’amour” dei cileni Teatrocinema e negli stessi giorni alla performance poetica-musicale-cinematografica inglese “Tongue Fu” e “The Sky Show” di un giovanissimo Rob Auton nelle cantine del Banshee Labyrinth (uno delle centinaia di pub adibiti al Free Fringe), o di decidere di rinunciare all’unica possibilità di vedere “Hamlet” di The Wooster Group per “Pioneer”, ultimo lavoro di Claudia O’Doherty (seconda classificata ai Foster’s Comedy Awards dell’anno scorso).
Questo stesso mix di intrecci mi ha portato anche alla mostra dedicata ai 50 anni del Traverse e di entrare nello spazio di Gregor Schneider (allestito dall’artista tedesco per l’Edinburgh Art Festival), o di sentire i Brothers Quay parlare di Bruno Schulz, Jan Lenica e Walerian Borowczyk in una delle stanze della Summerhall, uscendo dallo spazio degli Yurtakids, dopo aver visto “The Shit” (“La merda”) di Ceresoli dai banchi di un’aula di anatomia, o prima di riflettere con gli spagnoli Atresbandes sulle persone e sui vulcani con il loro “Solfatara”.
E’ questo il contesto in cui compositori, musicisti e band come Philip Glass, Patti Smith, Meredith Monk, Brian Eno, Pierre-Laurant Aimard e Marco Stoppa, Tame Impala, Mogwai, King Creosote, John Yorkston, Art Brut e i The Islanders, giusto per fare qualche nome, hanno deciso d’inserirsi, chi con uno spettacolo all’EIF, chi con una performance dedicata al Fringe. E qui artisti come Peter Liversidge, Ross Sinclair o Robert Montgomery hanno deciso di affiancare il proprio lavoro ed inserirsi con istallazioni in spazi pubblici commissionate dall’Art Festival.
Insomma, un buon posto dove trascorrere del tempo e dove giocare il gioco del teatro. Che poi è anche quello della vita. Nella mia partita ciò ha significato, fra le altre cose:
– riproporsi la domanda “cosa sono le nuvole?” grazie all’australiano “It’s dark outside” della Perth Theatre Company
– vedere per la prima volta una messa in scena di “Roughs” di Beckett, qui presentato dagli inglesi d’Animate Theatre Company
– navigare con la “Dustpan Odyssey” della Compagnie Philippe Genty e con quella di Paper Cinema & Battersea Arts Centre
– riempirsi di stupore di fronte alla piccola e magica “Red Bike” di Principio Attivo Teatro
– agitarsi tra le poltrone del Kings Theatre per una storia d’amore che riesce a mischiare cinema, fumetto e teatro con una tecnica eccelsa ma con un soggetto a dir poco offensivo
– vedere all’azione un talento incredibile come Haley McGee col suo “Oh My Irma”
– e ancora, guardare al prossimo referendum per l’indipendenza scozzese, o più in generale al tema dell’Unione, da due diverse prospettive: attraverso la tracklist di “I’m With The Band” al Traverse o sulle note hardcore-gansta-rap degli irlandesi Rubberbandits
Ma ha significato anche un pomeriggio ai Botanic Gardens, una mostra di Franz West, pane, burro e la Soup of the Day, una domanda e una risposta, una piccola bugia allo scoperto e il titolo di un racconto: Tender to the blues.