C’è stato tempo per arrivare, fare il check-in in ostello e tentare invano di cambiare un assegno della Royal Bank of Scotland inviato lo scorso anno dal Festival stesso, con il quale ti si restituiva il prezzo di biglietti rivenduti perché sostituiti dagli accrediti. Poi via verso l’ufficio stampa a The Hub, dove ritiri gli accrediti e accetti di farti offrire un “black coffee”: sono tutti così gentili che rifiutare sembra davvero scortese.
Sul Royal Mile riesci a districarti dalla presa avida dei teatranti e infili il Fringe Shop, convinto che lì ritirerai i tuoi “media tickets”. Invece tutt’altro, il giovane che si occupa di distribuire i programmi (solito volumone di 300 pagine) spiega che i tuoi biglietti ce li ha il Fringe Central. Gli uffici del festival sono incastonati nei locali della University of Edinburgh dietro Nicolson Street, giusto davanti al Pearhouse Beer Garden, uno dei luoghi più frequentati del festival, praticamente un tempio della birra e della musica dal vivo dove concedersi una pinta di Tennent’s cominciando a buttar giù qualche nota, prima di “Anatomy Act”, spettacolo della compagnia Negative Capability.
Il C Venue è una delle numerose multisala teatrali che nascono in città come Edimburgo o Avignone, che fondano la propria economia sui festival. Una sorta di albergo del teatro, con qualcosa come venti tra sale prove e spazi per la performance. Facilmente ci si perde tra scale e corridoi, alla ricerca prima del bagno poi della sala, lo studio A. Situata nella parte d’edificio semidistrutta da un grave incendio, è una delle più piccole. Non ha tuttavia nulla da invidiare a quelli considerati i più importanti “teatri off”. La verità è che qui al Fringe il “teatro off” non esiste. Esiste certo la possibilità di fare linguacce a quell’altro festival al quale quest’anno ci approcciamo con aspettative minori. Ma per il resto quello che si vede negli oltre 500 “venues” (luoghi di spettacolo) è il solo e unico teatro tollerabile. Ecco allora che anche la sala più piccola ha un parco luci che molte delle nostre “sale grandi” invidierebbero.
In scena, tre sacche di plastica di quelle in cui si ripongono i cadaveri e un solo giovane attore che ci racconta, con un inglesissimo vocione da londinese, come per lui sia oscena la morte. A breve dalle sacche emergeranno, vispe e combattive, tre attrici, che lui presenterà come “la sua parte femminile”. Il plot è piuttosto semplice, un drammaturgo che parla al pubblico aggiungendo alla propria voce quella di altri frammenti di sé, che pilota nell’interpretazione degli stati d’animo e dirige in piccole scenette. In questo modo assistiamo alla rappresentazione piuttosto didascalica di cosa accada tra le pareti di una mente creativa: come prendano forma le idee, come le inclinazioni dell’indole del drammaturgo prenda distanza da esse per preferirne altre che lo fanno stare più tranquillo, nei confronti delle quali sa di avere armi ben collaudate.
Una famiglia allo sfascio, l’assoluta incapacità nei rapporti con le donne, il sesso, e soprattutto la morte e la sua “oscenità“. Concetto originale, anche perché a far da contrappunto sono piccoli esempi aneddotici con i quali si dimostra come la maggior parte delle parole perdano di significato quando inserite in un discorso. Il tutto veleggia su un ottimo ritmo e su certe invenzioni drammaturgiche tutto sommato gradevoli. Gli attori sono giovani e agguerriti, dimostrano grande preparazione ed impegno. Non c‘è traccia dei loro nomi, ché qui le individualità non vengono sopravvalutate. Basta dire che l‘autore, Freddy Syborn, ha scritto sketch per la tv e ha vinto un RSC Prize; qui il teatro è un bene di consumo. In questo caso si tratta di un ottimo esempio di energia teatrale, giovane per età ma adulta per ambizioni e con pretese misurate, quello che al nostro teatro troppo spesso manca. C’è molto artigianato. Magari un po’ intellettuale, ma dopotutto molto British. E la performance delle ragazze (Harriet Green, Susie Chrystal e Jessie Wyld) s’intona bene e, ancora una volta in tono con la “inglesitudine” del testo, non teme qualche lunga tirata dalle tonalità brutali.
Applaudi, ma devi poi uscire di corsa, ché ti aspetta il Grupo Corpo, compagnia brasiliana coreografata da Rodrigo Pederneiras e diretta e illuminata dal fratello Paulo. Per fortuna il Festival Theatre è a pochi passi. Al desk che distribuisce i programmi di sala ne ritiri uno più per il gusto di utilizzare il voucher gratuito, oltre che come souvenir. Perché hai deciso che, stavolta davvero, le note non le leggerai. Una volta tanto riesci a renderti conto in anticipo che, da profano (e chissà poi come davvero si faccia a smettere di esserlo), quello che chiedi alla danza è che trasmetta un’emozione. E basta. Il significato è quasi – ecco, di’ la bestemmia – superfluo. Bando alla filosofia, preferisci restare a fare il tuo lavoro e andare in cerca della danza conservando la tua umiltà di spettatore, per capire una volta per tutte quale sia il tuo atteggiamento nei confronti di uno spettacolo basato esclusivamente sull’uso di tecniche di gestione del corpo sopravvissute ad anni di modifiche. Troppo spesso e troppo di recente ti è capitato di restare deluso di fronte a spettacoli di danza o teatro visuale che riportavano chissà quali motivazioni nelle note per poi rivelarsi niente più che coreografie astratte. Un’astrattezza peraltro spesso feconda, alla quale tu e altri spettatori sareste anche stati in grado di dare invece un nome (magari ciascuno uno diverso). Astrattezza inquinata però dalla pretesa di voler dire qualcosa, di voler ammiccare. Qualcuno recentemente spiegava che “è un po’ una tendenza di certo teatro europeo”. E allora, ora che ti senti estremamente europeo, vuoi cercare di capirci qualcosa.
Ti siedi al tuo posto e ci vorranno solo pochi minuti prima di rendersi conto dell‘inutilità di tutto il ragionamento fatto. Il programma non lo toccherai perché non ce ne sarà bisogno. E perché avrai gli occhi impegnati a godere dello spettacolo. Grupo Corpo, non c’è nome più adatto. Questo è un ammasso di carne che si muove all’unisono. Ecco. Deciso che tu sei ancora un profano, ad oggi il punto della danza per te che sei profano sta lì, almeno in parte. L’unisono, la coordinazione. Quell’incredibile lasciare andare i corpi di dieci direzioni diverse per poi farli reincontrare d’improvviso in evoluzioni perfettamente consonanti, come attratti nello stesso momento dalla stessa potente calamita. Mentre non riesci a staccare gli occhi da quel movimento, senti sulle ginocchia il peso piccolo del programma di sala. Ritardi il confronto, decidi che se ne parlerà all’intervallo. Ma poi del programma intuisci solo con la coda degli occhi il colore, perché il vecchio francese accanto a te lo sta sfogliando. Non ti azzardi a toccarlo. Chissà se in quelle note c’è davvero qualche indizio delle intenzioni del coreografo. Potresti sbirciare ma, in quell’istante esatto, ne saresti condizionato. Improvvisamente tutto è quasi chiaro: sarebbe un po’ come dare un significato al muoversi delle foglie in autunno, come chiedersi: non bastava che cadessero e basta? C’era proprio bisogno di tutta questa poesia?
Cyrano morente sussurrava: “Guardate le foglie, come cadono piano e bene. […] E malgrado il terrore d’imputridire al suolo fan che nella caduta sia la grazia d’un volo”. Quelle foglie non sanno quando cadranno fino al momento in cui cominciano a oscillare. Allora sì che vale la pena fare della poesia, ché quella è una danza ultima, una danza di morte. Un gruppo di foglie che si prendono per mano e in un soffio compiono quell’ultimo salto, per non morire sole. Ecco cosa ti sembra la buona danza. E questa è molto più che buona, è meravigliosa. Un ultimo salto, mano per la mano, per non morire da soli. E allora, se è così, è di troppo anche la musica malinconica. Le note tristi, le sviolinate, sono pura didascalia, piovono sul bagnato, pioggia su pozzanghere già belle gonfie, sull’orlo dell’esondazione. Perché la malinconia sta tutta nel corpo stesso, nel fatto semplice che qualcuno sta guidando quei movimenti, che la vera improvvisazione nella danza forse non esiste. Eccolo, forse, il grande, oceanico paradosso: qualcosa che suona come la libertà incarnata s’incatena invece i piedi da sé. E allora è come quando guardi Pina Bausch danzare: anche laddove non capisci che cosa lei e i suoi danzatori stiano danzando, è la malinconia dei loro corpi ad avere la meglio. Indubbiamente in questo dittico del Grupo Corpo (“Parabelo” e “Onqotò”) c’è molta tecnica, a volte troppa, una perfezione che non si sporca mai e che dà al tutto un senso di virtuosismo forse eccessivo. Ma se ne rimane affascinati e t’arrendi: come primo giorno, è stato abbastanza intenso.
ANATOMY ACT
di Freddy Syborn
produzione: Negative Capability
con: Freddy Syborn, Harriet Green, Susie Chrystal, Jessie Wyld
GRUPO CORPO
Rodrigo Pederneiras Choreographer
Parabelo
Tom Zé and Zé Miguel Wisnik Music
Fernando Velloso and Paulo Pederneiras Set design
Freusa Zechmeister Costume designer
Paulo Pederneiras Lighting designer
Onqotô
Caetano Veloso and José Miguel Wisnik Music
Freusa Zechmeister Costume designer
Paulo Pederneiras Set and lighting designer