Edinburgh Festival giorno 5: tirando le somme con Caledonia di Alistair Beaton

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Per la quarta volta di fila – senza scherzi – apri gli occhi alle 9.12 in punto. Dovrai giocarteli questi numeri. Ma tu a ‘ste cose non ci credi. Non ci hai mai creduto.
Cerchi di capire, nella penombra delle tende di tartan douglas green, chi è sveglio e chi no. La spagnola del letto di sotto russa amabilmente, come ha fatto per le tre notti precedenti; osservi del movimento nel letto accanto al tuo, ma si tratta di una risposta condizionata al cigolio che hai appena prodotto tirandoti su a sedere. Per il resto tutto è immobile. Ti fai coraggio e scendi a fare un po’ di rumore. Con una punta di tristezza, ricomponi lo zaino. Ti fai l’ultima doccia e lasci il tuo shampoo/doccia-schiuma sul davanzale, stavolta di proposito. Se lo prenderà l’uomo nero del Royal Mile Hostel.

Oggi hai poco da fare, praticamente soltanto riordinare gli appunti della sera prima, quando eri passato in un salto solo dal teatro d’animazione all’horror, e dedicarti a un pigro giro di shopping. Tanto più che il tempo è decisamente uggioso. Ne uscirai comunque vincitore, riuscendo a trovare il tartan giusto per la sciarpa di compleanno di tua madre e un anello celtico a tua sorella.
Ripassi in ostello a fare il vero e proprio check-out, lasci lo zaino in un angolo, i tuoi biscotti nella scatola del “free food” e prosegui per il King’s Theatre in Leven Street, concedendoti il giro più lungo, giù per la città vecchia fino al Green Market. In anticipo, ti bevi un large black in un coffee shop gestito da ragazze italiane lì accanto e infine lasci che la maschera ti scorti al tuo posto in platea, per vedere quello che sarà il tuo ultimo spettacolo qui, “Caledonia” di Alistair Beaton.

Scritta su commissione dopo ricerche approfondite, è la storia di un fallimento, quello della Scozia di fine Seicento che, sotto la guida dell’utopista Mr. Patterson, tentò di costruirsi un piccolo impero nell’istmo di Panama. Furono gli inglesi, d’accordo con gli spagnoli, a impedirglielo tramite un embargo del commercio, che tagliò le gambe alla neonata Scotland Company mettendo fine alle ambizioni coloniali del piccolo stato.
Beaton è noto in Scozia per i suoi pungenti scritti e show satirici. Provi a immaginarlo come un Michael Moore o una Sabina Guzzanti, forse un po’ più moderato. Secondo la sua penna, il fallimento della patria è sì da imputare alla potente e prepotente Inghilterra, morbosamente gelosa del proprio impero coloniale, ma anche a una Scozia ancora troppo provinciale, ingenua, dalla mentalità contadina, che si fa schiacciare dal peso insostenibile della classe di banchieri. Ben scritto e ben realizzato, con inserti musicali esilaranti e un cast affiatato, si merita un lungo applauso nel finale, quando Patterson, per restituire il denaro agli investitori, firma un accordo tra il governo scozzese e quello inglese, sancendo così la nascita della Royal Bank of Scotland, mentre una pioggia di cambiali ricopre la platea.
Mentre ti pieghi a raccogliere il tuo souvenir, fai caso al brontolio dello stomaco, che ti riporta nel diner della sera prima. Ci aggiungi anche lo stesso pub, dove però devi berti una birra senza più l’accompagnamento del quintetto folk, ché hai fatto tardi a scrivere le ultime note, quelle che tireranno le somme della tua “seconda volta a Edimburgo”.

La grossa differenza, quest’anno, è stata l’esperienza del Fringe vissuta da stampa accreditata. L’anno scorso eri stato un po’ snob, o semplicemente un po’ ingenuo. Non ti era bastata la lezione di Avignone, dove avevi nuotato molto più a lungo nella piscina dell’Off che in quella dell’In. Dall’aeroporto di Edimburgo eri andato direttamente agli uffici dell’International Festival, senza passare dal via. I migliori spettacoli li avevi comunque visti al Fringe – levato il maestoso “Faust” di Silviu Purcarete – , ma era stato un vero e proprio investimento, nemmeno troppo piccolo. Sedotto dai prezzi ridotti delle performance (non avevi pagato mai più di 7 pounds) ti eri concesso ben oltre gli sfarzi che potevi permetterti. Ché era un po’ come una droga. Se anche solo per errore sfogliavi un paio di pagine di quell’immenso programma, ecco che trovavi almeno una decina di titoli che ti erano sfuggiti e dovevi per forza cercare di recuperarli, con l’ansia della fila al box office e dei soldi spesi. Finché non avevi detto: “Basta così, è bene tenersi un po’ di denaro per quando tornerò sul pianeta terra”.
Stavolta è stato tutto diverso. Per tempo hai capito che potevi richiedere dei media tickets anche al Fringe, con premura hai provveduto a inviare all’ufficio stampa tutto quello che occorreva, dalle statistiche analitiche di queste pagine alla traduzione della copertura stampa offerta del festival 2009. In fondo è normale che, in un festival che si regge principalmente (nonostante l’aiuto della Royal Bank of Scotland) sulle spalle degli stessi artisti, si sia un po’ più severi con l’assegnazione degli accrediti. Ma dopo aver superato l’esame, quest’anno hai preso parte al Fringe come giornalista accreditato. E attualmente stai cercando il modo per entrare addirittura nella rassegna stampa. Il termine “addirittura” è appropriato per dare un’idea dell’enorme importanza data alle recensioni in questo festival. Comprensibile anche questo, vista l’offerta mastodontica e la grande concorrenza.
Così tutti gli artisti fanno a gara per accaparrarsi le famose “five stars” che tutti, dai quotidiani nazionali come The Scotsman, The Observer e The Guardian alle fanzine locali (e spesso attive solo questo mese in tutto l’anno) come Five Weeks, Sunnyside e Views from the Stalls, sono tacitamente costretti ad adottare come metro di giudizio unificato. E qui torna in mente un buffo aneddoto.

Non si è dato conto, in questi diari, di tutti gli spettacoli visti. Sono stati citati quelli di cui, nel bene o nel male, valeva la pena lasciare nota. Ma è capitato un fatto curioso: quasi tutti gli artisti di cui hai scritto in queste pagine li hai poi rincontrati girando per Edimburgo. Di qualcuno hai soltanto incrociato lo sguardo, con altri hai parlato. Così, sabato hai incontrato Harriet Green (attrice di “Anatomy Act”) fuori dal Chocolate Planet che fa angolo su High Street; domenica Alon Nashman (attore-autore di “Kafka and Son”) ha tentato di reinvitarti al suo spettacolo mentre distribuiva flyer davanti alla Edinburgh Playhouse; di Jonathan Storey (autore e animatore di “Jack Pratchard”) hai una mail nella tua casella KLP datata lunedì, stesso giorno in cui da Thomas Marceul (attore-autore di “Hamlet, the End of a Childhood”) hai avuto via Facebook notizia che è stato nominato come miglior performance solista. E Michael Sabbaton lo hai visto attraversare Cockburn Street ieri notte.

Tu un po’ nei segni ci credi e così riesci a contattare Harriet Green mandandole il link alla prima giornata di diario pubblicata qui, provvedendo a tradurne un estratto, nella speranza che lo alleghino ai volantini e alle locandine. Se questo funziona e in qualche giorno dovessi comparire nella rassegna stampa dell’Edinburgh Fringe, significa che devi continuare a credere nei segni. E giocare il numero 9 e il numero 12 appena questo volo atterrerà all’aeroporto di Ciampino.

CALEDONIA
di Alistair Beaton
produzione: National Theatre of Scotland
Anthony Neilson Director
Peter Mckintosh Designer
Chahine Yavroyan Lighting Designer
Nick Sagar Sound Designer
Paddy Cunneen Composer
Anna Morrissey Movement Director
Cast Paul Blair, Tam Dean Burn, Cliff Burnett, David Carlyle, Alan Francis, Frances Grey, Paul Higgins, Neil McKinven, Robert Melling, Matthew Pidgeon, Morna Young.

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