Se fossimo tanto sconsideratamente perversi da metterci a cavillare su questioni estetiche sotto una pioggia di bombe, cosa che stiamo per fare, confesseremmo che la serata del 14 luglio scorso al Napoli Teatro Festival avrebbe entusiasmato chi ha la passione per il gioco delle antonimie. Nella fattispecie la coppia di contrari è “aperto” e “chiuso” (sgombrando subito il campo dal malinteso che per “apertura” e “chiusura” di uno spettacolo si intenda maggiore o minore comunicatività), e si aggancia perfettamente ai due spettacoli in scena alla Reggia di Capodimonte, uno nel Real Bosco, l’altro nel chiostro del Palazzo.
“Napule ’70” è l’ultimo lavoro di Claudio Ascoli, fondatore nel 1973 della compagnia Chille de la Balanza, e autore di un percorso che ha sfiorato la tradizione terzo-teatrista, il revival della commedia dell’arte e dei saltimpanca e l’epico-popolaresco, e si struttura in un continuo dialogo tra il “dentro” la scena e il “fuori”.
È “aperto”, come si anticipava, non solo alla platea, a cui ci si rivolge direttamente e un po’ scompostamente, ma anche alla storia italiana, napoletana in particolare, tra colera, illusioni berlingueriane di svolte epocali, l’Irpinia del 1980, la vita teatrale di compagnia, la nobile mitologia basagliana, e giù giù sino a scendere nell’autobiografia, nelle fila tirate in occasione dell’anniversario – i settant’anni sono i suoi – del capocomico-Ascoli.
Dopo varie sezioni, ciascuna a sé stante, burattini, auto-interviste, il finale (uno dei vari possibili finali, disposti lungo la seconda parte del lavoro come alla ricerca dell’estremo accordo di chiusa più convincente, di un’ultima indimenticabile posa) è addirittura più intimo, scavato nella carne del grande vecchio, il quale si spinge con sprezzo del pericolo o guittesca sbruffoneria a calarsi nella propria morte, quasi nella propria bara, suggellando “Napule ’70” con una lunare pantomima funeraria, una sorta di catabasi dolentemente carnascialesca, che si chiude con il trionfo della maschera di Pulcinella e i più noti tra i versi di Kavafis.
“Edipo – una fiaba di magia” di Chiara Guidi in dialogo con Vito Matera è invece l’opposto. Lo spettacolo è “chiuso”: non vi è dialogo fra il mondo fuori e quello in scena, di nessun tipo; anzi, la scena stessa è un meccanismo perfettamente organico e blindato (un dispositivo, direbbero alcuni, autoportante), un ambiente che, come un orologio quiescente, ha solo bisogno di essere caricato per iniziare la sua corsa regolata.
Anche dal punto di vista tecnico, la scena è chiusa da un velatino dal cielo concavo, a simulare un antro, e i personaggi tendono ad assumere posizioni non immote ma statiche (uno di essi è, persino, una grossa roccia, puro elemento scenografico dotato di voce, che sotto una certa luce pare suggerire tra le ombre qualcosa come una pietà michelangiolesca). Sembra di essere davanti a uno di quei carillon giganti che incantano i turisti a Monaco, a Cracovia e altrove.
La costruzione e persino la restituzione della partitura sonora firmata da Francesco Guerri e Scott Gibbons, vero centro del lavoro, sono, o sembrano, appunto scritte, incise (voci comprese), in modo da non poter subire influssi dal “di fuori”, scostamenti dalle prefissate agogiche del meraviglioso nel quale è inquadrata. Qualche automatismo, stavolta marionettistico, è solo nel verificarsi di qualche scollamento tra battuta udita e “azione” del corpo in scena, che sembrano di tanto in tanto inseguirsi quasi pedantemente.
Un elemento vivificante, esterno, a dare il ‘la’ c’è, ed è proprio il personaggio-ragazzo di Edipo lo zoppo, che chiede l’accesso all’oltremondo fiabesco del palco, attraverso la risoluzione del noto indovinello della Sfinge, messa in scena dalla sola voce di Chiara Guidi.
Edipo, solo lui (nel corpo e nel suono purissimi di Filippo Zimmermann) fa da virgiliano tramite fra chi guarda e le rotelle e i bilancieri di quell’orologio incantato, a cui regala il moto e a cui accede con un’operazione che ricorda il passaggio da un ambiente a un altro della prima edizione della S.S.T.I. di cui Guidi ci parla nel “Teatro infantile”, recentemente edito per i tipi di Luca Sossella.
In questo mondo altro, in questa “terra desolata” al di là del tulle, che scopriremo essere il giardino annichilito dallo scelus edipico, tutto è opaco ma nulla realmente misterioso, nemmeno le creature (realizzate da Istvan Zimmermann e Giovanna Amoroso): esse sono rami secchi, un ragno-detective, tuberi, bulbi, la talpa Tiresia, la madre Terra, Creonte, e non appaiono circonfuse di ambiguità, né parlano una lingua altra. Una luce diversa le bagna, e le caratterizza come creature diverse; le scopriamo intente nei loro battibecchi: rumoreggiano e si inalberano proprio come noi, tutte comprese nelle domestiche cure del loro umbratile quotidiano.
In questo universo organico, la trama del racconto (“la vecchia madre terra che accoglie nel suo grembo il giovane seme che vi penetra per nascondersi, dormire e generare un frutto”), ciò che ci illuderemmo essere l’unica cosa interessante per dei ragazzi (il lavoro è pensato per spettatori dagli otto anni, che alla prima a loro dedicata a Cesena hanno applaudito convinti), non è che una delle molte vite in scena.
L’attenzione è rapita da altro: i corpi contorti delle creature, l’incalzante concertato delle voci e delle luci, il chiacchiericcio, l’emergere di un violoncello, l’aggrumarsi e il distendersi delle tensioni, il fluttuare del tutto in una vasca, in un acquario dalla quarta parete stagna eppure traspirante. Ciò sostanzia la commovente mancanza di “utile” del lavoro – non di senso ma di fretta, di urgenza a “stringere”. Nessuna vera preoccupazione di andare al dunque ci pressa; è una gratuità, anch’essa, aliena, quella del rigirarsi a volte senza sugo in quell’antro oscuro, mentre le domande da fuori premono.
Così come gratuita eppure elettrizzante è la conclusione: il perdono, inaudito, del crimine di Edipo. Un ribaltamento della lettera sofoclea che incredibilmente, “come le cose che nascono dal nulla”, testimonia l’entusiastica accettazione della vita, nelle sue curve cieche e nei suoi germogli improvvisi.
EDIPO – UNA FIABA DI MAGIA
Ideazione Chiara Guidi
In Dialogo Con Vito Matera
Con Francesco Dell’accio, Francesca Di Serio, Chiara Guidi, Vito Matera, Filippo Zimmermann
E Con Le Voci Di Eva Castellucci, Anna Laura Penna, Gianni Plazzi, Sergio Scarlatella, Pier Paolo Zimmermann
Musica Francesco Guerri, Scott Gibbons
Scena, Luci, Costumi Vito Matera
Prosthesis Istvan Zimmermann, Giovanna Amoroso – Plastikart Studio
Realizzazione Scene Laboratorio Scenografia Pesaro – Trecento Lidia
Fonica Andrea Scardovi
Tecnica Francesca Di Serio, Asia Pirini, Eugenio Resta
Responsabile Di Produzione Benedetta Briglia
Assistente Alla Produzione Caterina Soranzo
Cura Elena De Pascale
Amministrazione Michela Medri, Elisa Bruno, Simona Barducci
Consulenza Amministrativa Massimiliano Coli
Produzione Societas
Coproduzione Emilia Romagna Teatro Fondazione
Un Particolare Ringraziamento A Roberta Ioli, Sabrina Raggini
durata: 1 h
applausi del pubblico: 2′
Visto a Napoli, Real Bosco della Reggia di Capodimonte, il 14 luglio 2020
NAPULE ‘70
di e con Claudio Ascoli
E Con La Partecipazione Di Sissi Abbondanza
Voci Antonia Cerullo, Bartolo Incoronato, Sissi Abbondanza, Matteo Pecorini
Musiche Dario Ascoli
Sonorizzazione Alessio Rinaldi
Scene E Costumi Sissi Abbondanza, Paolo Lauri
Disegno Luci Renato Esposito
Video Dario Trovato
Suoni E Video Mapping Matteo Pecorini
Elaborazione Musiche, Suoni E Voci Gabriele Ramazzotti
Grafica Cristina Giaquinta
Foto Di Scena Paolo Lauri
Guarrattelle Sissi Abbondanza
Costume Pulcinella Vincenzo Canzanella
Maschera Pulcinella Antonio Ascoli
Le “Domande” Sono Di Matteo Brighenti
Produzione Chille De La Balanza
durata 1h 05′
applausi del pubblico: 2′
Visto a Napoli, Chiostro della Reggia di Capodimonte, il 14 luglio 2020
Prima assoluta