L’attualità spazio-temporale di Eli Commins. 2^ parte

Breaking / Miranda Warning|Breaking / Miranda Warning
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Breaking / Miranda Warning
Breaking / Miranda Warning (photo: elicommins.fr)

Come nasce la performance “Breaking”?
Lo scorso anno ho preso parte alla “Sonde 03#09 – CNN Chartreuse News Network”. Il tema della Sonde era verificare come il teatro possa rendere conto di un evento riguardante l’attualità del mondo, ambito che ha disertato da molto tempo, a unico profitto dei media di massa. La mia performance si svolgeva alle 7 di mattina, all’ora di un giornale radio, e consisteva nel seguire attraverso Twitter nove persone che si trovavano a Anchorage, in Alaska, mentre stava avvenendo l’eruzione del vulcano Redoubt.
Basandosi sui messaggi di una rete di utenti di Twitter, la performance mostrava come l’eruzione vulcanica avesse risonanza nella vita quotidiana di un piccolo gruppo di amici. Quell’evento esigeva una drammaturgia propria, che la performance ha trasposto nello spazio scenico, riportando i quattro giorni di eruzione nella scala del tempo reale della rappresentazione. Anche se ancora la performance non aveva un nome, è stato il numero zero di “Breaking”.

Il mondo viene quindi messo in scena in tempo reale.
Da alcuni anni mi dedico alla ricerca sulla temporalità nella performance teatrale in rapporto alla realtà contestuale. Avevo già affrontato questo tema nella performance “120 Times”. “Breaking” è un passo ulteriore. Si tratta di un dispositivo performativo ‘immersivo’ che lascia arrivare sulla scena ciò che diventa evento nell’attualità del mondo, attraverso le vite reali di coloro che si trovano di fronte a una catastrofe naturale, una crisi politica o sociale, un crimine o un altro sconvolgimento del loro ambiente. Sulla base del flusso di informazioni create dagli utenti di Twitter, l’evento è inscritto nella temporalità di una performance. Incentrato su un soggetto preciso dell’attualità, che per natura è imprevedibile fino a alcuni giorni o settimane dalla rappresentazione, “Breaking” ci colloca in una nuova posizione rispetto al rumore del mondo, rivendicando così per il teatro un territorio ampiamente abbandonato ai mass media. Ne consegue che il contenuto di “Breaking” cambi costantemente, in funzione della realtà presente del mondo, quindi dell’evento, così come la sua forma, che si plasma sulla materia trattata. Finora ci siamo occupati delle rivolte a Teheran, del sisma ad Haiti e in Cile, dell’eruzione del vulcano islandese (per un seminario alla Scuola Paolo Grassi a Milano), fino all’ultimo “Breaking” dedicato alla migrazione dal Messico all’Arizona.

“Breaking” si interroga su eventi dell’attualità in un tempo pressoché istantaneo rispetto al loro accadere. Qual è il rapporto con i media dell’informazione, normalmente deputati a rendere conto di questi eventi?
Ho una formazione da storico, ma ad un certo punto del mio percorso di studi ho iniziato a nutrire forti dubbi, fino a disilludermi. Non credevo più alla scrittura “vera” della storia, al concetto di “verità storica”. La stessa ambizione di dire “la verità” su un fatto iniziava a pormi dei problemi. Provavo invece un sentimento opposto riguardo alla dimensione del teatro. Nella finzione teatrale trovavo più verità. Il racconto mi sembrava più veritiero della sintesi.
È questo che sta alla base di “Breaking”. Partendo da tale premessa, rispetto al modo di trattare la notizia da parte dell’informazione, “Breaking” si differenzia almeno su due aspetti. Il primo è relativo al fatto che non miro alla verità, alla ricostruzione di una notizia vera. Faccio teatro. Siamo di fronte solo a opinioni di persone che stanno vivendo un’esperienza e la ritrasmettono: sono parole relative. E in effetti non so assolutamente se ciò che dicono sia vero o meno, non ho neppure la possibilità di verificare e confrontare la parola di una persona con quella di un’altra. Ciò che mi interessa è solo la loro umanità. Ricerco, rispetto a un dato evento, delle immagini poetiche comuni al di fuori di quelle mediatiche. Con queste poi tesso un testo, che si oppone al discorso preconfezionato dei politici e dei media, portando quindi in sé una libertà poetica che permette di guardare in un modo altro il mondo attuale.
Il secondo aspetto che mi differenzia dall’informazione è relativo al fatto che ciò che trovo nelle chat sono cose semplici, concrete, testimonianze in prima persona, dalle quali però emerge una pluralità di punti di vista, anche contraddittori, fondati su esperienze, le più dirette possibili. Siamo quindi più vicini all’esperienza di chi vive i fatti, e a quella che dei fatti ne fa lo spettatore, che non si trova in una dimensione frontale – e ciò differenzia “Breaking” anche da forme più tradizionali di teatro – ma è completamente immerso nel dispositivo, nello stesso momento in cui i fatti stanno avvenendo nella realtà esterna. Non a caso, nel dispositivo, una delle videoproiezioni riporta l’ora “reale”, che scorre minuto per minuto rispetto all’evento e arriva sempre fino al momento stesso della performance. A cui si aggiungono gli ultimi Twitter letti dagli attori, che sono realmente gli ultimi lasciati dagli utenti, in contemporanea alla performance stessa.

Che cosa ha determinato la scelta di Twitter rispetto ad altri social network e quali effetti produce, se li produce, sul racconto?
Twitter, tra i vari social network, è completamente aperto, lascia  la possibilità di scegliere un argomento e su questo aggrega una serie di dati e persone-utenti. E poi è più semplice di altri sistemi, poiché si usa facilmente anche con il cellulare. Ciò che lo rende tuttavia più interessante è la costrizione formale che lo connota, l’imposizione cioè di un limite nella scrittura: ogni tweet non può superare i 140 caratteri. Dal punto di vista letterario e teatrale è molto intrigante. Obbliga infatti a una sintesi estrema nei contenuti, e crea una versificazione che potremmo definire contemporanea. Si tratta cioè di una scrittura concisa. Quel limite impedisce di usare uno stile troppo letterario, e riduce l’uso ridondante di aggettivi.

Come sono individuate le persone su Twitter e qual è il loro grado di coinvolgimento nel progetto?

Cerco persone che chattano su alcuni argomenti precisi in alcune zone geografiche determinate, individuo quelle che mi sembrano più interessanti, e inizio a seguirle: sono i loro post che costituiscono la materia con la quale è tessuto il racconto intimo di  “Breaking”.
Per quello sull’Arizona e il Messico ho impiegato due mesi di ricerca a individuare chi seguire. Nello stesso periodo mi ero interessato anche alla Thailandia, attraversata da sommosse e a rischio di un colpo di stato. Gli attivisti usano molto internet per comunicare e quindi si presentava come estremamente adatta. Tuttavia si ponevano anche molti problemi, sia sul piano linguistico visto che non parlo il thailandese, sia per il soggetto, trattandosi di un conflitto che ha una serie di dinamiche che possono sfuggire alla comprensione immediata in Europa. Ecco le ragioni che, alla fine, mi hanno fatto desistere.
Chi seguo è coinvolto nella misura in cui i rispettivi tweet diventano materia vivente della drammaturgia. Informo le persone che le sto seguendo, ma poi mi tengo in disparte.

L’essere integrati in una performance teatrale può condizionare “l’autenticità” dei messaggi delle persone scelte?

Sapere di far parte della performance non incide molto sul loro comportamento, e io cerco comunque di fare in modo che non li condizioni. Dopotutto il pubblico dello spettacolo è di circa 50 persone per volta, poco paragonabile all’ampiezza della platea virtuale di internet.
Come accade quando si gira un documentario, per cui i protagonisti ben presto si dimenticano del microfono e della macchina da presa che li filma, così anche loro si dimenticano di me che li osservo e anche del pubblico. Queste persone si trovano in effetti a interpretare un ruolo alla stessa stregua in cui nella performance lo interpretiamo io, gli attori e gli spettatori.

I tweet che ascoltiamo sono esattamente gli stessi che postano le persone o vengono in qualche modo modificati?
Diciamo che nello spazio del “tradimento della traduzione” riesco ad insinuarmi come autore. Le tragedie al centro di “Breaking” sono fatti reali, e volendo riproporre il punto di vista soggettivo delle persone non modifico niente del contenuto. Ciò su cui posso intervenire, in alcuni casi, riguarda unicamente lo stile, con dei micro-adattamenti di alcuni particolari, veicolati appunto anche dalla traduzione in francese. Nella realtà, infatti, i Twitter usano degli effetti letterari che non potrei usare nell’ambito della finzione. Per esempio, il personaggio principale del “Breaking” su Haiti scrive prima del terremoto: “Domani andrà peggio, dolce notte a tutti”. La realtà permette questo genere di effetti.  È su di essi che intervengo. Il risultato è che i testi sono netti, brevi, gli effetti letterari non sono visibili. Contrariamente a tutta la tradizione del teatro contemporaneo francese, il testo di “Breaking” stilisticamente non è lirico, ostentatorio, lacrimoso, nonostante la tragedia. Può tuttavia avere, proprio per questo motivo, un ritmo poetico.

In che senso si può parlare, per “Breaking”, di modificazione in tempo reale del dispositivo e non di improvvisazione? E in che modo il movimento dello spettatore nello spazio fisico e temporale della performance diviene testo dello spettacolo?

Da una  parte possono essere modificati i testi, dall’altra può essere modificata la struttura della performance, cioè l’ordine nella sequenza di lettura dei tweet, delle proiezioni di immagini e video e dell’emissione del suono. Il sistema è semplice. Ad esempio, per i testi, ci sono più piste sonore registrate e ogni attore ha un testo che legge in diretta, nato dalle chat. Io sono dietro a un pc e mixo in diretta le letture live degli attori con le voci registrate. In questa operazione ha molta rilevanza la presenza del pubblico, con il suo movimento o la sua staticità, poiché mi interessa che ci sia un’interazione tra lo spettatore e il testo dello spettacolo. L’attenzione, l’ascolto dello spettatore, e il suo movimento sono in questo senso una forma di azione, poiché hanno degli effetti diretti su quanto è detto e agito durante lo spettacolo. Il mio lavoro di mixaggio infatti avviene sulla base dell’intensità di movimento degli spettatori. La mobilità degli spettatori si mescola al ritmo delle voci. Se il pubblico però non si muove va bene ugualmente; in quel caso mi faccio guidare dalla sensazione che comunque trasmette. È tuttavia importante che le persone si pongano la domanda “Posso muovermi, dove, come, quando?”.
All’inizio, per mixare, avevo un software complicatissimo, un programma matematico che gestiva le piste sonore secondo un sistema di captazione. Ma risultava troppo meccanico, avendo proposte tutte identiche e a volte incomprensibili. Nel racconto, tutte le combinazioni del testo non hanno infatti lo stesso effetto. Ho deciso quindi di occuparmi direttamente io di questa funzione. Il mio ruolo, da questo punto di vista, ha a che fare con quello di un dj, che reagisce molto alla sala, a ciò che sente, e fa delle scelte combinatorie per conservare leggibilità, comprensibilità e interesse.
Per “Breaking” il dato di variabile, non può tuttavia essere considerato improvvisazione,  trattandosi della combinazione di certi elementi, tutti già preparati e calibrati, che avviene, sì, in modo imprevedibile. Devo confessare che provo un grande piacere ad essere dentro al dispositivo scenico. Quando scrivevo delle pièce lineari provavo un certo dolore, una volta che il testo veniva messo in scena, non potendo più intervenire. Qui posso farlo.

Rispetto alla drammaturgia di una pièce testuale, come si pone l’autore in un progetto multimediale e digitale che, come “Breaking”, ha al centro la scena virtuale di internet?
Quando sei un autore, su internet diventi un personaggio. Tutti coloro che usano i social network, tuttavia, in un certo qual modo tendono ad interpretare un ruolo. In questo senso, internet è davvero un’immensa scena virtuale teatrale. Constato inoltre che, in un progetto come “Breaking”, si verifica uno spostamento dei ruoli di ogni persona coinvolta nel progetto artistico. Cambiando lo status del testo, che non è più scritto in forma tradizionale ma è digitale, l’autore è spostato rispetto alla posizione che occuperebbe, poiché una parte di regia è già compresa nel fatto di scrivere: la temporalità della scrittura lo avvicina al regista; il regista è anche autore e attore; gli attori non recitano, ma leggono in tempo reale testi che si formano in quel momento; lo spettatore è sollecitato, in modo interattivo, e condiziona la performance stessa. In definitiva tutta la catena di creazione dell’opera subisce delle trasformazioni.

Il “Breaking” pilota trattava dell’eruzione del vulcano Redoubt, una catastrofe naturale. Sono seguiti i “Breaking/Iran” sulle elezioni iraniane (giugno-luglio 2009), “Breaking/Haiti” (marzo 2010), sul sisma che ha colpito l’isola, e messo in relazione con il sisma in Cile. L’ultimo “Breaking/Miranda Warning” parte da un fatto di cronaca, l’omicidio del ranchero Robert Krentz alla frontiera tra Arizona e Messico, per parlare di clandestini. Cosa l’ha portata a scegliere questo tema?

Dal punto di vista personale, il tema della frontiera mi ha sempre interessato molto. La mia famiglia ha infatti molte “origini”: sono nato in California ma ho ben tre passaporti, belga, britannico e statunitense, e mi considero cittadino francese d’adozione. Non ho una cultura dell’appartenenza nazionale. A causa della storia dei passaporti, che rende difficile ogni entrata in un paese, ho una relazione molto forte con il tema della frontiera, che assume rilevanza non solo a livello politico e sociale, ma anche personale. La frontiera è la materializzazione spaziale di un confine interiore. La maggior parte delle persone non sono le stesse da un lato all’altro di una frontiera: hanno atteggiamenti e sentono le cose in maniera diversa.
Messicani di qua dalla frontiera e statunitensi dell’Arizona dal lato opposto condividono lo stesso paesaggio e ambiente climatico. Entrambi reagiscono agli stessi eventi. L’arrivo della tempesta di sabbia nel deserto genera tweet da entrambe le parti.
Tutti e sei i personaggi che abbiano seguito erano atterriti dalla paura: i messicani di attraversare il deserto, perché si rischia la morte; gli americani dall’arrivo dei clandestini, considerati una minaccia, invasori del proprio territorio, e di cui parlano come se fossero animali. Nei commenti in Arizona si vede il riflesso dell’ambiente politico e sociale americano, che reagisce all’omicidio di Robert Krentz accusando un non meglio precisato assassino messicano e approfittando dell’occasione per promulgare una legge di una durezza inedita per contenere l’immigrazione clandestina dei messicani.
Tuttavia, nonostante queste separazioni (restituite dai video dei discorsi politici americani), negli stessi momenti vediamo come i messicani e gli americani siano attraversati dalle stesse immagini poetiche. C’è in loro un immaginario del deserto molto metafisico, soprannaturale, che fa riferimento alle allucinazioni del deserto, ai fantasmi che, in particolare, appartengono alla cultura messicana: è uno spazio in cui non si può rimanere, in cui si intravedono e non vedono delle cose. E così scopriamo, al contrario dell’idea che potremmo farci attraverso i media, che le persone sono sempre fuori dai cliché. La frontiera di ognuno non è mai una caricatura quando la si guarda davvero.

Chiudiamo la connessione Skype. Ho in mente i tweet della figlia di un ranchero: “Mio padre stamane si è accorto che stanotte hanno svuotato il frigo della dépendance”, “Hanno fatto un buco nella rete della recinzione”.
Chissà se la tempesta di sabbia sferza ancora il deserto e se un’ombra, diventata uomo, ha smesso di fare paura.

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