
Le grandi imprese partono da atti di egoismo, o di coraggio collettivo.
Questa storia appartiene alla prima categoria. Forse.
Due amici nella vita e nel lavoro, in sodalizio da anni: uno va dall’altro e gli dice: “Ma perché non facciamo ‘Il commesso viaggiatore’, io alla regia e tu in scena, come ai vecchi tempi?”.
“No – gli fa l’altro – L’idea è buona, ma a questo giro faccio tutto io, tutto da solo. Questo viaggio voglio farmelo io! Scusa Jack. Questo è il mio sogno, sarà per un’altra volta! Non te la prendere”. Lo fissa, rigirando verso di lui lo sguardo che era appeso ai vetri della finestra: “Mi capisci vero?”.
Lui lo guarda, in quel misto fra sangue al cervello e un pensiero rimasto chiuso in testa, tipo: “Che stronzo! Dovevo immaginarlo”. Poi sospira. Sguardo fuori dalla finestra. Di nuovo occhi negli occhi. Annuisce con un mezzo sorriso, levando a mezz’aria il bicchiere quadrato in direzione del centro tavola. Ondeggia il dito liquido di Lagavullin. “Fai buon viaggio, Willy!”.
Deve essere andata più o meno così, come dà da immaginare nella video intervista di oggi Elio de Capitani, registrata nello studio che divide con Ferdinando Bruni al secondo piano del teatro dell’Elfo, in quella che forse doveva essere una cucina, nel progetto originario dell’Elfo Puccini. Me lo racconta davanti ad un quadro di Bruni, di quelli che sono magari rimasti dell’esperienza di Rosso. Ma quella è un’altra storia. Questa invece è la “Storia di un commesso viaggiatore” che de Capitani sognava di fare da anni, e che sta portando in scena al Teatro dell’Elfo (fino a domani, domenica 2 febbraio) e non mancherà poi di una generosa tournée. Che merita. Perché è un altro grande affresco americano, ma anche italiano, che ci viene regalato, dopo “Angels in America” parte I e II, dopo “Frost/Nixon” ecc.
La drammaturgia aiuta più nel secondo atto, mentre il primo resta di costruzione, più faticoso. Belle le luci (per il debutto interessante di Michele Ceglia), semplice ma evocativa la scena, che crea quasi un sottoscala metropolitano.
Lo spettacolo, ben interpretato, è da vedere, una vicenda di non-ascolti, di piccoli grandi egoismi che non portano da nessuna parte, e che segnano tutti a modo loro una sconfitta. Perché nella vita, come in scena, a volte per avere di più bisogna fare un passo indietro, ascoltare, chiedere, parlare, lasciar andare un sogno per liberarne un altro. E mettere qualche punto, se e dove serve. Egoismo, coraggio. Forse entrambi. Anche questo è amore. Storie di teatro, Jack.