Con il 700° anniversario di Dante, prosegue il sodalizio fra Elio Germano e Theo Teardo
In un poema dalla struttura così rigidamente verticale, ascensionale come la Commedia, il corpo è vissuto via via sempre più come fardello, limite all’elevazione, importuno legaccio alla vita materiale. Nel XXXIII canto del Paradiso, ultimo dell’opera, esso è certamente impaccio alla trasfusione più completa nella luce divina finalmente raggiunta e goduta (così come la lingua, insistentemente oggetto di proteste di impotenza). Eppure è proprio attraverso quei sensi che il poeta riesce ad assumere in sé e a costruire per il lettore il reticolato nel quale agganciare la mirabile visione.
Il genio di Dante è in grado però di escogitare per quella equivoca sensorialità una caratteristica che riesce concettualmente a elevarne la sostanza, pur mantenendone la qualità. La potenza visiva del personaggio, infatti, nel contemplare la luce divina è da essa accresciuta, così che l’oggetto possa parallelamente svelarglisi in ulteriori dati, attingibili solo in grazia di questa aumentata possibilità percettiva, fino a sfociare nella pura visione intellettuale: «…ma per la vista che s’avvalorava / in me guardando, una sola parvenza, / mutandom’io, a me si travagliava». Un’esperienza sensibile – eppur travalicante il senso meramente umano.
Potrebbe essere stata quest’esperienza di percezione aumentata ad aver orientato Elio Germano nella stesura della drammaturgia del suo “Paradiso XXXIII”, pensato in occasione del settecentesimo anniversario dantesco, ora a Roma al Teatro Ambra Jovinelli, con la regia di Lulu Helbæk e Simone Ferrari e la musica, confluente con il testo in un’unica scrittura scenica, di Theo Teardo.
I sensi, la vista e l’udito, sono dunque prepotentemente sollecitati al pubblico: videoproiezioni (Sergio Pappalettera e Marino Capitanio) e disegno luci (Pasquale Mari) immersivi, e una musica ora dalla forte componente ritmica, ora capace di distendersi in puro fluire, di scendere nel registro più grave e far vibrare i petti del pubblico in sala, ora di sciogliersi nella minimale e sentimentale melodia disegnata da un duo viola-violoncello (sul palco insieme al compositore al live-set ci sono Laura Bisceglia e Ambra Chiara Michelangeli). Il tutto in una scena spoglia, al centro della quale pende una sorta di largo cilindro di tulle, che andrà poco per volta dischiudendosi, per mostrarne l’interno, coincidente col fondo del teatro, dove avranno luogo le proiezioni.
Altro elemento di innegabile acutezza della scrittura di Germano è l’individuazione se non dei registri, poiché è unico il registro tesissimo adottato nell’estrema guglia dell’edificio dantesco, della funzione comunicativa a cui si piegano le diverse sezioni, delle variazioni tematiche.
Se l’apertura del canto è infatti dedicata alla preghiera di San Bernardo alla Vergine, e il resto oscilla tra la dichiarazione dell’impossibilità di una resa in parole della visione goduta e la descrizione – tuttavia consegnata al lettore – di questa visione, la scena di “Paradiso XXXIII”, dopo la preghiera consumata all’interno del chiostro di tulle, è caratterizzata da due momenti contrapposti e alternati. Ecco dunque che in corrispondenza della visione, lo spazio teatrale si popola di dati sensoriali, di suoni, di luci, di eventi visivi, portando l’energia a un grado di tensione notevole; durante i passi dell’ineffabilità, l’attore e il palco si spogliano, facendosi quasi nudi di effetti, e lui fa per scendere in platea, per confessare al pubblico la propria impotenza di poeta per cui le parole sono quelle di «un fante / che bagni ancor la lingua alla mammella».
Questo andirivieni non manca, di tanto in tanto, di qualche legnosità: i momenti più tesi e intensi della visione sfumano in modo piuttosto sbrigativo nelle vicine sezioni “metapoetiche”. Né manca qualche lungaggine in un momento puramente lirico dell’esperienza estatica affidato alla sola musica e al movimento del protagonista nel retropalco, diviso dalla scena da una parete a riquadri trasparenti, quasi un’antica serra, oltre la quale ha origine il fascio luminoso. Così è discutibile quello che sembrerebbe un travestimento monacale dell’attore, in principio, accucciato all’interno della tenda di tulle. Ampie maniche, gesto dei palmi al cielo, persino un suono di campana percossa dal vivo, capaci di generare a menti troppo fervide il bisticcio tra monachesimo francescano e tibetano.
Tra l’opzione di una pura lettura dei versi danteschi, basata sulla resa sonora o sulla mera illustrazione, e una riscrittura scenica che usi il poema come puro canovaccio (chi voglia leggere un amplissimo inventario di tutti questi tentativi, potrà farlo su Hystrio, XXXIV), tra questi due estremi di costruzione e non-costruzione, Germano sceglie dunque una via intermedia: la sua, attenta, analitica, non è una drammaturgia applicata sui versi di Dante, ma rintracciata in essi. Essa, cioè, attraverso lo svolgersi di quella narrazione poetica, costruisce per quei versi una vita rappresentativa, che in un certo senso è già presente nella lettera del testo.
Di questa vita scenica nascosta non sfuggono a Germano i dettagli, come la diversa qualità (e non solo intensità) dei successivi momenti di quella rivelazione della visione.
È però proprio qui, precisamente nel convertirsi progressivo di un’astrazione in immagine, che il testo scenico giunge a cozzare con il testo poetico, rischiando il cortocircuito del kitsch.
Il primo momento è lo shock improvviso, anche se lungamente preparato, del primo sguardo verso Dio («Li occhi […] all’etterno lume si drizzaro»), a essere tradotto scenicamente in un efficace e confuso, indistinto, affastellato agglutinarsi di segni astratti sul fondo della scena, senza colore, semplicemente esorbitanti.
Nel secondo, quello più circostanziato, «…vidi che s’interna / legato con amore in un volume / ciò che per l’universo si squaderna», si tenta di tener dietro al concetto di coesistente molteplicità con un rapidissimo scorrere di immagini (oggetti, visi, cose del mondo – ignorando il seguito: «sustanze e accidenti e lor costume / quasi conflati insieme…»).
E quindi, ultima fase dello sguardo del poeta in Dio, l’immagine dei tre giri «di tre colori e d’una contenenza» è pura illustrazione; e persino la figura umana, figura di Cristo, nel terzo cerchio, dipinta, secondo il testo dantesco con lo stesso colore dello sfondo eppur inspiegabilmente percettibile all’occhio del viaggiatore, è fedelmente ritratta dalle videoproiezioni con la sagoma di un uomo che si stacca, appunto, da uno sfondo.
È fatale che, come cresce il grado di rappresentabilità di un dato espresso verbalmente, così cresce la banalità della rappresentazione, che se ne fa mero doppio, inessenziale, perdente.
Eppure, questa dettagliata scrittura drammaturgica dei versi danteschi, guidata da un sincero afflato comunicativo e da un notevole grado di approfondimento, rendono lo spettacolo coinvolgente, e ne fanno, come dichiara Germano, un “dispiegamento” del testo, una sua cordiale, riuscita, talvolta anch’essa poetica parafrasi scenica.
PARADISO XXXIII
di e con Elio Germano e Theo Teardo
drammaturgia Elio Germano
drammaturgia sonoraTeho Teardo
e con Laura Bisceglia (violoncello) e Ambra Chiara Michelangeli (viola)
regia Simone Ferrari & Lulu Helbaek
disegno luci Pasquale Mari
video artists Sergio Pappalettera e Marino Capitanio
scene design Matteo Oioli
presentato da Pierfrancesco Pisani per Infinito Produzioni in coproduzione con Ravenna Festival, Fondazione Teatro della Toscana, Teatro Franco Parenti, Teatro Abbado di Ferrara, Teatro Galli di Rimini
durata: 50′
Visto a Roma, Teatro Ambra Jovinelli, l’8 febbraio 2022