«Voce leggera, pochissimo bisognosa di appoggi, tende a bruciare le sillabe nello spazio della pagina bianca». Questo scriveva Eugenio Montale di Antonia Pozzi, poetessa milanese dal temperamento sensibile e malinconico.
Laureata nel 1935 con una tesi su Flaubert, la Pozzi aveva uno straordinario talento. Sembrava destinata a grandi cose. Ma nel 1938, a soli 26 anni, agli albori della seconda guerra mondiale, si uccise.
È uno spettacolo vibrante “L’infinita speranza di un ritorno”, monologo che Elisabetta Vergani e Farneto Teatro hanno dedicato ad Antonia Pozzi il 3 dicembre scorso, nell’anniversario della morte.
La cornice art nouveau della rappresentazione, la Palazzina Liberty di Milano, sembra proiettarci anche fisicamente in quell’epoca non così remota.
Diretta da Maurizio Schmidt, Elisabetta Vergani entra nell’arte e nell’anima di Antonia Pozzi. Ne attraversa la poesia e i ricordi: paure, sogni, angosce, desideri repressi. Un percorso esemplare, che Farneto ha cominciato nel giugno 2010 con il recital “Per troppa vita che ho nel sangue”; poi la residenza teatrale nella casa della poetessa a Pasturo, in Valsassina, vicino a Lecco, tra le montagne della Grigna. Ne scaturì, nel giugno 2011, lo spettacolo “Radici profonde nel grembo di un monte”, evento itinerante nel giardino della casa, con la collaborazione del Comune di Pasturo e di Scarlattine Teatro.
Anche ne “L’infinita speranza di un ritorno” Elisabetta Vergani resetta tempo e spazio. Compone la drammaturgia quasi sulla scrivania di Antonia Pozzi. Ne sbircia diari, lettere, poesie. Pedala sulla sua bicicletta. Ne ripercorre i tanti itinerari, dai Navigli alle Alpi, da Roma a Napoli alla Sicilia. Attraversa la sua Milano: via Mascheroni, dove nacque in una casa patrizia; il liceo Manzoni, dove conobbe il professor Antonio Maria Cervi, un mito e un sentimento per lei. Poi le strade periferiche: Porto di Mare, piazzale Corvetto, via dei Cinquecento, dove era impegnata socialmente a favore dei poveri e degli sfrattati. Fino a Chiaravalle, dove pose fine alla propria esistenza terrena, mentre le leggi razziali costringevano alla fuga alcuni dei suoi amici più cari.
Qui il fascismo è un’eco di fondo. Brani spensierati come “Non dimenticar le mie parole” non ne attenuano il brusio. Sulla scena, oltre al pianoforte di Filippo Fanò, autore di una partitura drammaturgica piena di pathos – note evasive o cupe che sono tutt’uno con la musicalità dei versi – anche una poltrona e una panchina di ferro battuto: oggetti appartenuti alla Pozzi. Come le tante foto proiettate in scena, espressioni di un altro suo talento. Scatti dall’amata Pasturo, dalle Dolomiti, di cascine, armenti e ruscelli. Reportage dei suoi viaggi, vicini e lontani. Immagini ingiallite di una Milano luogo dell’anima, nei circoli culturali, nelle zone povere e periferiche, tra i mercati e le botteghe degli antichi mestieri.
Molte fotografie furono realizzate dalla Pozzi negli ultimi anni di vita, quando intendeva documentare i lavori agricoli per scrivere una storia della Pianura Padana, prestando attenzione alla presenza femminile e a quella dei bambini.
Si sedimenta nello spettatore un pensiero unico, semplice e naturale. Emerge, più che la tecnica o la perfezione, la genuinità di espressioni, situazioni, eventi e storie. Sempre trapela una velata malinconia, fino alla decisione tragica del suicidio. Che non è rinuncia, ma catarsi poetica ed esito agli anni bui.
Attrice e poetessa sono un’unica dimensione velata da una sola veste, che la Vergani indossa con pudore e delicatezza. Sul piano registico e drammaturgico, risalta un’evocativa scena di teatro di figura: l’attrice è un’ombra cinese che si muove leggera nella stanza della poetessa. È la traduzione scenica delle affinità elettive tra la Vergani e il personaggio che interpreta. Bellezza e contagio trapelano dagli scritti di Antonia Pozzi. Parole semplici, vergate con scrittura infantile.
Le luci disegnate da Paolo Latini hanno un tocco puntiforme, naturalistico e interiore. Dialogano con i chiaroscuri della Milano invernale, nebbiosa, notturna, che filtra dai vetri della Palazzina Liberty.
Elisabetta Vergani, morbida o invasata, spazia tra registri molteplici, quelli delle età di Antonia, dei suoi infiniti stati d’animo. Eppure emerge – costante – un’eleganza discreta di fondo, elemento di criticità con la nostra epoca di voyeurismo a volte morboso e volgare.
L’INFINITA SPERANZA DI UN RITORNO
Vita e poesia di Antonia Pozzi
con Elisabetta Vergani
al pianoforte: Filippo Fanò
regia: Maurizio Schmidt
musiche: Filippo Fanò
drammaturgia: Elisabetta Vergani
luci: Paolo Latini
durata: 1h
applausi del pubblico: 2’ 30”
Visto a Milano, Palazzina Liberty, il 3 dicembre 2015