La scomparsa della fondatrice, insieme a Horacio Czertok, del Teatro Nucleo di Ferrara: pedagoga, regista, rivoluzionaria, artista
Martedì 31 gennaio Cora Herrendorf è partita per il suo viaggio verso l’infinito. La signora della memoria lascia una traccia indelebile non solo nella storia del teatro, ma nella storia personale di centinaia di persone, allievi, attori, donne, amici e amiche di tutto il mondo.
Due giorni senza la grande maestra, due giorni per riordinare dentro la mia memoria i ricordi a lei legati, spolverandoli e liberandoli da tutti i pensieri che la quotidianità ricopre.
Cora Herrendorf, nata a Buenos Aires nel 1949, crebbe nell’ambiente teatrale di sua madre, che era un’attrice dell’IFT, il teatro ebraico di Buenos Aires.
Negli anni tra il 1966 e il 1972, terminati gli studi liceali, Cora partecipò a molti corsi teatrali di Buenos Aires. Poco dopo, si iscrisse all’Istituto Teatrale Universitario della capitale argentina ma fu poi costretta ad interrompere il corso per la dittatura. Poco dopo partecipò ad un progetto teatrale al Centro Drammatico. Il Centro era una scuola teatrale particolare. Cora Herrendorf ricorda che non era riconosciuto dagli ambienti teatrali “alti”, perché in qualche modo si presentava come un’alternativa al teatro tradizionale insegnato nelle scuole più affermate. Gli attori che vi facevano parte erano allo stesso tempo membri sia di un gruppo, la Comuna Baires, che allievi di un laboratorio autogestito.
Il fondatore della scuola e regista del gruppo era Renzo Casali.
Dopo la prima esperienza alla Comuna Baires con il suo compagno, che diventerà poi padre dei suoi figli, Horacio Czertok, fondarono la Comuna Nucleo. Nel frattempo la dittatura di Videla si faceva sempre più violenta, tanto da costringere il giovane gruppo ad emigrare.
Da esuli – un esilio che Cora porterà dentro come una condizione imprescindibile della sua identità – si trasferirono in Italia, a Ferrara, grazie alla proposta progettuale di Antonio Slavich, allora direttore dell’Ospedale Psichiatrico, per svolgere un laboratorio teatrale con i pazienti e accompagnare quella magnifica apertura che si realizzò nel 1978 con la legge Basaglia.
Un teatro in un ospedale psichiatrico, un luogo non-luogo, perfetto per un teatro che stava sperimentando la propria esistenza.
Dal 1976 in poi si susseguirono vicende, progetti, spettacoli, laboratori di formazione e piccole grandi rivoluzioni culturali. Rivoluzioni rese possibili grazie al teatro.
Tra i suoi progetti ricordiamo gli spettacoli “Chiaro di Luna” (1978), “Luci” (1980), “Sogno di una cosa” (1984), “A Media Luz” (1986), “Vocifer/azione (1987), “Quijote!” (1990), “All’Alba” (1993), “Francesco” (1993), “Mascarò” (1995), “Tempesta” (1997), “Guernica” (1999), “Vocifer/Azione 2” (2000), “Frankenstein” (2001), “Esilio” (2007) . Come pedagoga nel 1995 a Ferrara fonda il CETT, Centro per il Teatro nelle Terapie, scuola di formazione di operatori sociosanitari, attraverso la Scuola per Operatori Teatrali nel Sociale “L’Attore Sciamano” che dirige presso il Teatro Julio Cortazar. Nel 2007 realizza il progetto “Donne Comunitarie”, gruppo teatrale comunitario di genere, per cui dirige gli spettacoli “Signora Memoria” (2007), “La Balera di Filomela” (2009) e “Asylum – il manicomio delle attrici” (2012).
Ma questa è storia.
La donna Cora è presente come indelebile pezzetto di puzzle dentro tutti coloro che l’hanno vissuta. Ogni allievo, ogni partecipante anche ad un singolo laboratorio, ogni teatrante che è stato attraversato dal suo sguardo e penetrato dalle sue parole, porta dentro di sé un pezzetto di quel puzzle che compone la propria identità.
Cerco questi pezzetti di memoria. Cerco Cora e apro il mio vaso di Pandora.
Tra i miei diari mi colpisce un ricordo ormai assopito:
Aprile 2009.
Nella bacheca del Teatro Julio Cortázar un messaggio da Cora Herrendorf: “Prova Mascarò da soli dalle h.15,30 alle 18,30 fuori dal teatro (Andrea A., Andrea B., Cristina, Eleonora, Valerio, Davide, Manuela)”. Con in basso l’aggiunta di una nota esplicativa: “Ognuno prova da solo con le sue cose; abbigliamento: jeans non a vita bassa, una maglietta nera senza maniche, rimediatevi un foulard”. Chiamo Cora al telefono dicendole: “Io osservo… Osservo scegliendomi un punto di vista, anche solo una persona?”. Lei conferma e mi rendo conto dell’inutilità della mia domanda retorica.
Esco dal teatro con il mio quaderno e comincio a cercare gli attori.
Cora era un enorme specchio, così come lo è il teatro stesso. Uno specchio che riflette la nostra immagine senza maschere, senza finzioni, il teatro svela il reale, Cora era (ed è) tra i pochi capaci di mettere in atto questo moto interiore.
Pedagoga prima che regista, rivoluzionaria prima che artista, visionaria prima che teatrante.
Quarant’anni di pedagogia teatrale e formazione professionale. Quarant’anni di persone, donne e uomini, che sono cresciuti personalmente, prima che professionalmente, anche grazie la sua presenza. Una presenza materna, attitudine che rifiutava, ma che si percepiva fortemente come elemento femminile prepotente, nel bene e nel male.
La rivoluzione si fa partendo dalle persone. Cora ha formato centinaia di persone e ha compiuto innumerevoli rivoluzioni. Attraverso l’arte ha diffuso cultura, pensiero critico, idee di pace e di solidarietà, mezzi terapeutici per l’aiuto delle persone più fragili, arte e bellezza.
Altro pezzetto di puzzle, la voce rauca di Cora, sigaretta alle labbra, con il suo accento argentino:
La memoria produce arte. Essa è la fonte delle nostre immagini. Siamo popolati di queste immagini. L’arte le trasforma in metafore poetiche. Tutto il resto è didascalico, concettuale, non riguarda l’arte. Mi racconto per immagini, emozioni e sentimenti. Quello è il luogo di noi stessi che dobbiamo indagare. È un procedimento complesso, crea conflitti, spaventa, ha a che fare con le proprie paure. Ma l’arte è in sé conflitto.
Cora ha insegnato a vedere dentro noi stessi. Vivere il conflitto. Fare, agire. La rivoluzione sta nella nostra trasformazione. La rivoluzione sta nell’azione.
Oggi, a due giorni dalla sua scomparsa, l’assenza si fa piena, rumorosa. Mi piace pensare che ognuno di noi stia vivendo un simile reset.
Nel vorticare dei ricordi, mi soffermo riposando il cuore in un’immagine di lei in scena, che appuntai sul mio diario durante una prova aperta:
Una sedia al centro dello spazio scenico. Di lato un tavolino piccolo tondo di marmo, a terra una fisarmonica rossa, un tamburo. Entra l’attrice, si sfila i sandali e a piedi nudi cammina a destra e a sinistra della sala, lo sguardo rivolto in basso davanti a sé, prende il tamburo, si avvicina all’asta del microfono e al leggio che sorregge i testi. La sua voce riempie lo spazio, profonda dal ventre fa vibrare l’aria più dei colpi di tamburo.
Iniziò il suo canto solitario, un testo di Mercedes Sosa.
Con le sue parole oggi, almeno per un pò, la saluto.
Ciao Maestra.
Cambia el sol en su carrera
Cuando la noche subsiste
Cambia la planta y se viste
De verde en la primavera
Cambia el pelaje la fiera
Cambia el cabello el anciano
Y así como todo cambia
Que yo cambie no es extraño
Pero no cambia mi amor
Por más lejos que me encuentre
Ni el recuerdo ni el dolor
De mi pueblo y de mi gente
Lo que cambió ayer
Tendrá que cambiar mañana
Así como cambio yo
En esta tierra lejana
Cambia, todo cambia.
(Todo cambia- Mercedes Sosa)
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di Renzo Casali
Centro Lunga Marcia Edizioni, 1973
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