L’Enigma di Valdoca e la diversità di Pinocchio: rito o parata?

Silvia Calderoni e Matteo Ramponi in requiem (photo: Simona Diacci Trinity)
Silvia Calderoni e Matteo Ramponi in requiem (photo: Simona Diacci Trinity)

Il Requiem per Pinocchio arriva questa settimana all’Arena del Sole di Bologna

Il discorso sul rito, quello sulla poesia scenica, quello sulla disabilità: per raccontare “Enigma – requiem per Pinocchio” del Teatro Valdoca, andato in scena a Roma al Teatro India, scegliamo di dare la parola ad almeno tre dei diversi discorsi che, in uno spettacolo risolutamente centripeto, totale, la chiedono da versanti diversi.

In scena si muovono corpi “eccentrici”: la definizione è della stessa Chiara Bersani, qui nei panni della bambina/fatina collodiana; un Pinocchio androgino e “dinoccolato” (l’aggettivazione è stavolta di Mariangela Gualtieri) per Silvia Calderoni; il muscoloso Matteo Ramponi è un torreggiante Mangiafuoco (senza barba ma con una gonna quasi egizia); due figure canore, in costumi quasi siamesi, Silvia Curreli ed Elena Griggio potrebbero essere il Gatto e la Volpe.
Faceva bene Flavia Dalila D’Amico, nel suo recente volume “Lost in translation – la disabilità in scena” (Bulzoni), a vedere in “Enigma” un lavoro che si interroga sulla questione della disabilità, e persino, diremmo noi, della diversità.

Il lavoro si impernia in uno spazio che, nonostante il “tutto a vista”, è sezionato in modo assai severo. Per il senso della profondità in due parti: la prima, lunga circa due terzi del totale (almeno come percezione), è occupata nella sua superficie da un ampio cerchio di tessuto candido, un planisfero muto, che ospita al suo centro una lettiga, costruita da tronchi rozzamente assemblati, in corrispondenza della quale il lino porta il segno cruento di una spruzzatura rosso-scura, una mattanza o un parto.
Che a ogni (ri)nascita debba corrispondere una morte è luogo comune – ce lo ricordava fra gli altri lo spaventoso mémoire di Fritz Zorn, in Italia tradotto col titolo di “Il cavaliere, la morte e il diavolo”, evocato dal Carrère di “Vite che non sono la mia”. Ma in effetti per lo stesso Collodi, di cui il progetto è un seguito poetico che non prosegue in orizzontale ma prova ad affondare in profondità, la nascita del Pinocchio bambino-vero combacia con la morte di quel burattino intreccio di libertà e genialità antisociale che porta lo stesso nome. E così, sopra la lettiga, giace un corpo inanimato, e dal sudario sporge una testa lignea, livida.

Dietro al cerchio, un corridoio parallelo alla scena è luogo più oscuro, meno segnato del candore di quel lino in proscenio. Lo spazio è poi ulteriormente suddiviso per il senso della larghezza in tre sezioni: sulla sinistra siede su uno sgabello, spalle al pubblico, Mariangela Gualtieri, quasi conficcata al microfono attraverso cui prenderanno vita i suoi versi-battute, attribuiti ai personaggi. Dietro di lei, sempre a sinistra, le percussioni di Enrico Malatesta; specularmente, sulla destra, al di là del cerchio bianco, tre tavoli per la regia live e le musiche di Attila Faravelli e Ilaria Lemmo.

Se ci si sofferma così dettagliatamente sul frazionamento degli spazi è perché esso è significativo di un habitat non solo fisico, ma comunicativo: il pubblico, dal coro absidale che è la platea, sembra gettare lo sguardo sulla larga navata centrale, sede principale dell’azione, sulle due strette navate laterali “sonore”, spingendosi fino al sagrato sul quale sgambetta, sperimentando i primi passi, il Pinocchio appena metamorfosato.
Gualtieri, quale officiante, proietta la propria voce addosso ai fedeli, tutti raccolti all’interno alla cerimonia; l’ostia sacrificale giace sulla lettiga.

Il testo e la drammaturgia sono egualmente organizzati secondo una ben definita scansione di momenti, tale che, malgrado il ritmo regolare del lavoro, si avvicendano con una logica interna che sembra essere frutto di laboriosi posizionamenti. Misurare quanto questo rito sia aperto nella sua struttura a un pubblico “fuori”, darebbe conto dell’effettiva efficacia della scelta della forma del rito; chiarirebbe cioè se siamo effettivamente noi a sedere nell’abside della basilica, o se, ribaltando la piantina poco sopra immaginata, non ci troviamo, letteralmente profani, ad assistere a una cerimonia dal sagrato. Di fatto, comunque, non vi è dubbio che gli officianti siano pienamente immersi nel magma del rito.

A questi riservati penetrali provano a dare accesso tuttavia i versi di Gualtieri, che qui confermano la loro natura performativa: obiettivo è il raggiungimento di uno stato lirico ad alta intensità, scarsamente cinetico, tendente all’estasi, pratico di un’illuminazione diremmo dal basso di verità semplici e grandi, che non rifuggono anzi fanno largo uso di un lessico da materia prima del sentimento.
Da una parte vi è l’uso generoso della ripetizione, in tutte le sue forme (anafore, anadiplosi, epifore), figure di un’assertività sensitiva, tesa a una sorta di trance poetica («Non volevo dirglielo. Non glielo voglio dire. / Non voglio dirglielo. / Non posso buttar giù parole sconsolate / per chi comincia ora. Non glielo posso dire»). Un innalzamento della tensione, quello perseguito, che si direbbe operato con mezzi meccanici, così come, d’altra parte, la scelta frequente del superlativo (la morte è «sovranissima», «coltissimi» i popoli selvatici, «minime» le particelle, addirittura «bellissimo» il poema…), è atto a indirizzare l’ascoltatore verso accecanti illuminazioni, in cui il registro però si abbassa e la porta si spalanca per accogliere tutte le orecchie: «Ci sono grilli intelligentissimi» e «lumache pazientissime».
Ripetizione e parossismo insieme portano automaticamente al sentiero sapienziale: «Scappa da questa norma che è tutta / saccente, infelice, svuotata di primigenie forze. /Tu scappa – e senti nelle gambe / quel formicolio intelligente. // Balla, ragazzo mio dinoccolato / tu hai nelle gambe qualcosa / che il ragazzo di carne ha scordato», o a un’estasi para-rituale tutta di cose, «Disordine c’è dentro il pane / e nell’acqua e l’aria è tutta / un tempestato disordine», di cui l’infantile purezza, qui garantita dal meccanismo del conio naïf (“tempestato”), dovrebbe garantire l’autenticità.
In altri modi, si ritrova nei rasoterra «Bello questo. Bello qui», o «C’è poi l’amore. Capitolo enorme gigante. / Che dirti? Che dire? L’umano va ben sostanziato / impastato di questo elemento chiamato l’amore. / Se no viene bruttissimo dentro».

Tale materia poetica, insieme a quella scenica e al complesso di musica, luci, costumi, materiale scenico, vuol girare del tutto solidale al suo interno, come una ruota ben oliata sul proprio asse, come un gorgo che, con metafora pirandelliana, ingoia ogni pagliuzza. Una ruota tanto ben fluida, tanto solidamente centripeta e coerente, appunto, da rischiare di non far presa che su sé stessa, girando nel vuoto: più che un rito, come si diceva, una sfilata pubblica, nella quale il pubblico resti rigorosamente a distanza.

Da qui, in una materia senza frizioni, il facile inno alla diversità, in cui un Pinocchio di legno abitatore di un mondo di “diversi” si ridesta apparentemente normalizzato perché fatto finalmente di carne, ma ritrovandosi subito nuovamente dotato di una “diversità ulteriore”, quella appunto di un corpo non ordinario. Una nuova libertà che conserva, dal punto di vista culturale, un anarchismo monellesco e carico di mistiche promesse («Magnifiche cose e tremende / aspettano il disobbediente»), eppur consolatorio e quasi arrendevolmente reazionario: «Cosa insegnarti se non l’amore?» si chiede la Fatina; «non ci serve abbecedario», insiste.
Il rito-celebrazione è dunque un canto che risuona in quell’ampia basilica: la tesi croscia su sé stessa, a sé bastante.

In più, nel battesimo di “Enigma”, la cerimonia/viatico alla quale siamo chiamati ad assistere e tutto l’apparato – la sua struttura scenica ecclesiale, la sua poesia scenica (più efficace quando esposta con la voce su un palco) – continuano a essere al servizio di un contenuto che, una volta strappato dai significanti, non suona illuminante. Né quei significanti ricercati, elaborati con cura e mestiere, riescono a ingigantire ciò che trasmettono, ad arricchirlo, o anche solo ad assorbirlo interamente: sono scollati, rivendicano con vera convinzione, in sostanza, non molto di più che la propria dignità stilistica, incontrovertibile ma già raggiunta ed esibita altrove.

Il 14 e 15 aprile in scena al Teatro Arena del Sole di Bologna.

ENIGMA Requiem per Pinocchio
regia, allestimento e luci Cesare Ronconi
testo originale Mariangela Gualtieri
in dialogo drammaturgico con Lorella Barlaam
con Chiara Bersani, Silvia Calderoni, Mariangela Gualtieri, Matteo Ramponi
e con, al canto Silvia Curreli, Elena Griggio
musiche dal vivo di e con Attila Faravelli, Ilaria Lemmo, Enrico Malatesta
collaborazione luci Stefano Cortesi
suono Andrea Zanella, Michele Bertoni
costumi Cristiana Curreli/ReeDo Lab
scultura in legno Maurizio Bertoni
oggetti di scena Mariacristina Navacchia
dipinti di scena Luciana Ronconi
cura e ufficio stampa Lorella Barlaam
consulenza amministrativa Cronopios
produzione Teatro Valdoca, ERT / Teatro Nazionale
in collaborazione con L’arboreto – Teatro Dimora | La Corte Ospitale ::: Centro di Residenza Emilia-Romagna; AMAT e Comune di Ascoli Piceno nell’ambito di “MarcheinVita. Lo spettacolo dal vivo per la rinascita dal sisma” progetto di Mibact e Regione Marche coordinato da Consorzio Marche Spettacolo.
L’attività di Teatro Valdoca è sostenuta dal contributo di Regione Emilia-Romagna, Comune di Cesena

durata: 1h 10’
applausi del pubblico: 2′ 15

Visto a Roma, Teatro India, il 24 marzo 2022

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