Un piazzato bianco, fisso per tutto lo spettacolo, non lascia spazio a ombre o ad altri giochi di luce.
Quattro sedie, anche loro bianche, sul fondo, a cui sono appese due corone e quattro maschere identiche (e sempre bianche) che ricordano nei lineamenti il volto di Arlecchino.
Gli attori sono quattro, tre uomini e una donna. Gli uomini sono vestiti con un abito da sera nero e portano le scarpe. La donna ha un vestito rosso, capelli corti, è giovane e scalza.
A loro va l’arduo compito di mostrare al pubblico la residenza di Belmonte della ricca Porzia, il tribunale del doge di Venezia e tutti i luoghi dei cinque atti del dramma shakespeariano, alternandosi in una complicata danza di cambio e scambio costante di personaggi e ruoli.
Senza dubbio una riedizione anticonvenzionale del Mercante di Venezia, portata in scena con neutralità da uno dei più apprezzati registi contemporanei nonché dal più giovane direttore artistico di un teatro pubblico in Italia.
Uno spettacolo ridotto all’osso, denudato di tutti gli artifici, da cui traspare un lungo lavoro di studio e prove con gli attori. Il recitare perde qualsiasi forma di accentuazione per diventare un ibrido tra il parlare quotidiano e la recitazione da palcoscenico. Le parole sono buttate via in una sorta di lunga cantilena mozza alla fine, mono-tona, espressa in frasi incerte e poco fruibili dal pubblico.
“Veramente non so perché sono così triste” scrive William Shakespeare nella prima battuta del dramma, e la frase viene colta da Massimiliano Civica per farne il “bout” della sua messa in scena. Tutto è improntato alla tristezza, in una sorta di atarassia comune che non permette alcun gesto agli attori, incastrati nel loro corpo come in una macchina immobile, da cui solo saltuariamente le braccia si muovono dalla postura lungo i fianchi.
Se la critica che viene spesso fatta alla performatività del teatro all’italiana è di “recitare dal collo in su”, i quattro personaggi di Civica ne sono una delle massime espressioni, scelta strana ma senza dubbio coraggiosa.
Interessante il momento della sedia, individuato come una sorta di camerino aperto in cui avvengono i semplici cambi scenici che si svilupperanno nella parte immediatamente successiva.
Il vero problema, non necessariamente in termini negativi, è però capire ciò che lo spettacolo lascia nel pubblico. Ci troviamo di fronte ad un grande punto interrogativo: se, infatti, si tralascia la sfera puramente emotiva mai toccata dalla rappresentazione, come purtroppo accade sempre più spesso, lo spettatore si trova di fronte a così tante metafore, segni e allusioni sceniche (anche ironiche) da uscire dalla sala perplesso ma incuriosito.
Ecco che l’avanguardia si schianta contro lo scoglio del tradizionalismo “stabile” all’italiana, e dal colpo ne sopravvivono soltanto gli aspetti più complessi.
Uno spettacolo, insomma, che non mira alla comprensione della continuità delle vicende ma che propone al pubblico un numero considerevole di “affreschi scenici” e molteplici sguardi registici.
Peccato, però, che si tratti di aspetti individuabili solo in virtù di una cultura teatrale molto alta e fortemente interessata.
IL MERCANTE DI VENEZIA
di William Shakespeare
regia Massimiliano Civica
oggetti di scena realizzati da Anna Carucci e Giusi Sillavi
con: Mirko Feliziani, Oscar De Summa, Elena Borgogni, Angelo Romagnoli
durata: 1h 32’
applausi del pubblico: 2’ 10’’
Visto a Genova, Teatro della Tosse, il 14 novembre 2008
Ah ah ah. Perfettamente d’accordo con l’intelligente commento precedente. Di troppo anche il pubblico, indubbiamente.
Togliamo tutto, arriviamo all’essenza, come nel Mercante di Venezia di Civica. Limiamo, appiattiamo, via quello, via questo, le parole no! quelle le lasciamo, il bardo se no che c’entra, ma facciamo in modo che si comprendano minimamente, essenzialmente, e che arrivino spente, monotone, suoni vaghi incolori e inodori, togliamo ancora, braccia lungo i fianchi, neutri, neutrissimi, inutili, deserti, voce come litania, togliamo ancora, occhi senza intenzioni, c’è ancora troppo, il senso non arriva, scartiamo, puliamo, la donna si capisce che è donna, un guaio, troppo presente, anche gli altri sono troppo, uno è un po grasso, troppo, l’altro è pelato, troppo caratterizzato, quasi una macchietta, decisamente troppo! gli attori devono essere appena percettibili, appena, appena, ma c’è ancora troppo, togliamo, limiamo, appiattiamo, via il pubblico, era troppo, e poi che serve un teatro? non serve e allora togliamolo, che servono gli attori, togliamoli, tanto non li paga nessuno, e le idee? Via anche quelle, rappresentavano il troppo che stroppia. la critica di questo spettacolo? Inutile, troppa, ricca di considerazioni che non servono. E questo commento? TROPPO, INUTILE