“Prima di fare qualcosa noi cadiamo. Più grande è la caduta, più interessante è il lavoro”.
Comincia così l’incontro con Enrique Vargas, fra i registi e ricercatori teatrali più stimolanti del panorama internazionale, colombiano di nascita ma trapiantato a Barcellona con il suo Teatro de Los Sentidos.
Sembra una frase stereotipata, invece è vera. Quando si trovava a Napoli per studiare la città per il Napoli Teatro Festival Italia è caduto esplorando una catacomba. E la sua ironia travolgente lo costringe a raccontarcelo.
Vargas, classe 1946, studioso di antropologia teatrale e di giochi e miti dell’Amazzonia colombiana, racconta che il suo vuole essere un teatro di esperienza. Ogni volta che uno spettatore partecipa ad uno spettacolo deve uscirne cambiato, nel corpo e nell’anima.
E in effetti, nel vedere “Abitare Palermo”, suo ultimo spettacolo prodotto dal Riso, Museo d’arte contemporanea della Sicilia, in collaborazione con NTFI e Palermo Teatro Festival, qualcosa cambia. E’ un’esperienza unica, poco raccontabile. Nel buio assoluto, nella chiesa sconsacrata del Nuovo Montevergini di Palermo (progetto di Alfio Scuderi, una chicca siciliana, culla del Palermo Teatro Festival) si intravedono delle immagini, si percepiscono dei profumi (le zagare, le arance…) e lo spettatore viene condotto da strani personaggi che, con una sensibilità unica, fanno vivere Palermo. Di colpo parte una musica e ti ritrovi in mezzo ad una festa di paese, dove tu stesso sei soggetto della scena, balli, bevi lo zibibbo e ti sembra di essere da un’altra parte. È questa l’essenza del lavoro. Raccontarlo lo rende banale. Bisogna viverlo. Tutti i sensi mirano all’ascolto e anche i più scettici escono dalla performance trasfigurati, nel volto e nella mente, portandosi addosso la poesia e la tenerezza di un gesto. La città viene decostruita e ricostruita con l’immaginazione, su fondamenta più solide. Come nelle “Città invisibili” di Italo Calvino. È come trovare una strada per scoprire l’archetipo della città, che è animata da un suo ritmo interno e da molte forme visibili (suoni, odori, fanfare). Lo spettatore viene immerso in questa ricerca e ne scopre la profondità solo usando i propri sensi in modo diverso dal solito, sollecitando il corpo: “Il corpo sa molto più di quello che crediamo”, afferma infatti Vargas trasportando lo spettatore in un mondo parallelo, fatto di fiabe, sogni e gioco.
La ricerca del Teatro de Los Sentidos parte sempre da una domanda. La cosa difficile è trovare quella giusta, che permetta di avvicinarsi al nostro lato oscuro, quello che conosciamo meno. L’importante non è darsi una risposta, ma riuscire a trovare la domanda personale che possa essere riconosciuta come universale da chi assiste allo spettacolo. Anche se “assistere” non è il termine gusto: lo spettatore, infatti, è parte del processo di conoscenza, viene guidato e coccolato dagli attori e diventa esperienza stessa; il soggetto si identifica con l’oggetto. “E’ come con il coniglio bianco di Alice. Lui scappa e ne vedi sempre la ‘codita’. Non lo afferri mai, ma non è questo l’importante. Quello che conta è continuare a inseguirlo”.
Enrique Vargas ci racconta come è iniziato il suo viaggio nelle città europee. La dimensione metropolitana è quella che oggi più ci appartiene, e l’artista si domanda quale sia il rapporto tra vita e morte nell’ambito urbano. Quello che gli interessa è esplorare questo tema coinvolgendo il pubblico, l’ambiente, gli attori e tutti i tecnici del progetto in un’unica esperienza sensoriale.
Dopo aver esplorato città come Barcellona, Lille, Copenaghen, lei è approdato lo scorso anno a Napoli, prima città italiana. Com’è andata?
Grazie al Napoli Teatro Festival Italia ho potuto conoscere una città che ha insita una tenerezza unica. Ci siamo domandati come mai Virgilio sia diventato mago: come mai un poeta è riuscito a far diventare viva la poesia, trasformandola in un corpo vivo, permettendole di guarire le persone?
E’ questa, quindi, la domanda del progetto “Cosa deve fare Napoli per rimanere in equilibrio sopra un uovo”?
Si narra che sotto Castel dell’Ovo Virgilio abbia posizionato un uovo. Se si rompesse quest’uovo cadrebbe tutto il castello, e con lui tutta la città di Napoli. Abbiamo capito quindi che nella fragilità assoluta di un uovo sta tutta la sicurezza e la forza di una città. Nella fragilità si trova sempre la forza. Questa è Napoli, ai nostri occhi.
Siamo abituati a correre, scappare e dire che non abbiamo tempo. Lei lavora su queste suggestioni per ricordarci l’arte dell’ascolto. Ascoltare se stessi soprattutto, ma anche i suoni di una città, i suoi odori, i fili che uniscono i cittadini, i sapori, le leggende. Si ricercano domande universali che, nel momento in cui vengono messe in pratica in una città specifica, ne svelano l’essenza, ciò che di solito non si vede.
L’esperienza teatrale deve permetterci di scomparire, scomparire per esserci ed entrare. Non a caso lo spettacolo è quasi totalmente al buio. E ha lunghi momenti di silenzio. Il silenzio e l’assenza di stimoli ci portano a scomparire momentaneamente, tutti insieme. Solo con questa sensibilità possiamo ricominciare ad apprendere l’arte dell’ascolto.
Come si fa a vivere a Palermo? Qui il rapporto con la morte è continuo, gli abitanti vivono in bilico tra allegria e miserie. C’erano due fiumi, uno rappresentato da Mnemosyne (dea della memoria) e l’altro da Danaide (condannata in eterno a versare acqua). Il primo arrivava al mare, il secondo no. I palermitani hanno scelto un punto di equilibrio tra i due fiumi, e vivono così, con la loro dignità contenuta.
Ma come si può raccontare tutto questo facendo appello ai sensi?
Il teatro deve essere un gioco, io mi annoio se non gioco. Il percorso che scelgo è sensoriale perché non siamo più abituati ad usare i nostri sensi nel modo giusto. Ci vuole uno spazio dove potersi ascoltare e dove le immagini non siano solo suscitate dalla vista, ma anche e soprattutto dagli altri sensi. La memoria del corpo crea poesia. Bisogna creare un’esperienza che permetta un’intimità senza manipolazioni. Non mi interessa descrivere una città, ma farla scomparire per dirne l’essenza.
Il Teatro de Los Sentidos è anche questo. Una ricerca di senso, fatta nel modo più semplice – ma non facile – possibile.
Ognuno riceve alla nascita un filo dalla grande tessitrice. Ogni filo è diverso, sta a te capire perché ti è toccato quel filo e dove ti porterà. Se lo capirai, tesserai la tua storia, altrimenti vagherai in eterno.