L’equivoco stravagante al ROF, tra purghe, filosofi e castrati

Amati in primo piano ne L'equivoco stravagante (photo: Rof)
Amati in primo piano ne L'equivoco stravagante (photo: Rof)

Ernestina, velleitaria filosofa-letterata-scienziata, cerca di giustificare la gelosia furiosa dell’amante con la diagnosi: «D’umor geloso egli impastata ha l’alma / che traversando per le fibre e arterie / produce nell’occipite / della sua fantasia / una talquale fantasmagoria; / quindi di veder crede / ciò che creder non deve, e ammalgamando / i spirti sparsi al nervo / che ottico s’appella, / un topo gli rassembra una vitella».
Il padre, altrove, prova a spiegare la sua incapacità di parlare come si deve, cioè di parlar “purgato”: «Ancor io qualche volta / Tento purgarmi; ma malgrado i miei / sforzi spropositati (!) ho sempre in corpo / il sugo della zappa / che succhiai col succhiare della pappa». E alla donna che gli si è fatta credere uomo (anzi eunuco), lo spasimante pentito confessa che «…se fossi mia / grande saria l’imbroglio: / perché pavento un scoglio / entrando in alto mar», voltando in osceno la metafora più diffusa nell’opera settecentesca. Continua poi, rivolgendosi a una tirata di lei: «Che pezzo magistrale!», avendo per risposta: «Che pezzo d’animale!». Mentre il coro la consola della suo senso di vuoto così: «Se vuota adesso sei, / più vuota non sarai: / col tempo troverai / un gaz, un infiammabile / o un qualche vegetabile / pallon ti renderà».
Che non ha bisogno di traduzioni…

Questo è il tenore di molte tra le pagine del libretto de “L’equivoco stravagante” (1811), seconda opera messa in scena da Gioachino Rossini, unica per Bologna, quando il pesarese aveva appena 19 anni, questa estate al Rossini Opera Festival 2019.

Nessuno stupore quindi che il libretto di Gaetano Gasbarri sia passato all’epoca attraverso tagli e rimaneggiamenti, e che dopo tre rappresentazioni l’opera sia stata definitivamente vietata. D’altronde «Oltre lo stile ripieno tutto di laide espressioni, e di frasi allusive alle più basse scurrilità, il nodo stesso dell’azione […] bastar doveva perché questo Dramma non fosse permesso», chiariva il Direttore Generale di Polizia di Milano.

Se infatti nel primo atto di una trama che ricorda molto il doppio intermezzo comico, con azioni differenti giocate dagli stessi personaggi, si chiariscono i ruoli e i caratteri di ognuno, nel secondo la protagonista Ernestina viene fatta credere dal servo-burattinaio Frontino (allo scopo di allontanarne un pretendente non gradito) nientemeno che un castrato, “musico” fallito ora in abiti muliebri per scongiurare un arresto per diserzione.

In tutto ciò, infiniti sono i luoghi comuni drammaturgici della tradizione che vi sono presenti, nati forse nella commedia plautina e che ancora a lungo si vedranno nell’opera comica fino a sboccare nelle farse cinematografiche: l’ambire a essere “filosofo” e risultare invece cervellotico e astruso; l’autocompiacimento quasi autoerotico del classico fanfarone pieno di sé; il confronto sociale e di costumi tra città e campagna, con la querelle tra rustici e raffinati, con l’inurbamento letto in chiave di promozione sociale; tutta la sfilza di espedienti drammaturgici di travestimenti, falsi precettori e false lezioni, e finzioni varie rese possibili dall’aiutante che innesca il gioco metateatrale ai danni del padre/tutore barbogio e ottuso, fino al momentaneo deus ex machina della Forza Pubblica.
In più qui il librettista, la cui biografia ha riesumato con sforzo notevole Marco Beghelli, insiste furbescamente sull’esca erotica più fertile di ogni tempo, il “nodo dell’azione” a cui si riferiva il Direttore di Polizia: l’ambiguità o meglio la doppiezza sessuale.

Nel ruolo della protagonista, che ha in pentagramma la tessitura più grave da Rossini mai assegnata a una donna (sul contralto ottocentesco proprio Beghelli ha scritto profusamente), Teresa Iervolino volentieri gioca con le tessiture basse “virili” e con la disomogeneità dei registri, da un lato quasi parodiando le emissioni tragiche, da lei ben apprese se non altro dai panni di Arsace (nella “Semiramide” firmata da Cecilia Ligorio), dall’altro avvalorando l’incertezza sessuale che ne circonda il personaggio. Fisicamente prestante (indimenticabile il gesto con cui getta sul letto l’amante e vi si tuffa sopra al grido di Viva la guerra, e amor!) e insieme capace di affettazione melensa e ipervirginale, aggiunge verve al ruolo di finto “castrataccio”, come viene oscenamente definita in scena.
Ci sono poi i due bassi, il padre Gamberotto (Paolo Bordogna), che sfoggia uno scilinguagnolo sciolto e pronto, e un sillabato comico efficacissimo, metronomo infallibile nei concertati e Buralicchio (Davide Luciano), dal gran volume e dalla verve comica travolgente. Chiude il cast il mezzo carattere lirico di Ermanno (Pavel Kolgatin), alla cui parte non sono richieste doti farsesche e che risolve ottimamente la sua lunga aria del secondo atto, oltre ai due abili “servi” Rosalia (Claudia Muschio) e Frontino (Manuel Amati), efficacissimi in scena.

La regia, affidata a Moshe Leiser e Patrice Caurier (registi del più sbellicante Comte Ory visto di recente, con la coppia BartoliCamarena ai massimi livelli), opta per la scena unica, un’ampia stanza della casa di Gamberotto, ulteriormente slargata da una prospettiva esagerata, tappezzata a motivi vegetali.
I costumi, di Agostino Cavalca, ricordano le caricature ottocentesche: grandi nasi, vitini stretti ed enormi glutei per tutti, uomini e donne, a sembrare delle curiose creature semi-umane. Se l’impostazione scenica è semplice, funzionale e comica di per sé (sul fondo spicca un enorme dipinto con un pascolo alpestre, dal quale una vacca fissa il pubblico con aria blandamente interrogativa), e le meccaniche della scenografia permettono una variazione degli spazi interessante e utile (il dipinto svela uno spazio retrostante, una parete si apre a ghigliottina per inghiottire il letto nuziale, una parete opportunamente ruota per dar spazio alla cella dove verrà incarcerata Ernestina), probabilmente l’elaborazione di qualche gag maggiormente organica, specialmente con un libretto così esplicito, avrebbe ben sottolineato il carattere farsesco del testo, e lo avrebbe porto con una violenza maggiormente mirata. Sfugge inoltre il senso dell’intera aria del tenore nel secondo atto cantata in ribalta a sipario chiuso, tanto da far sospettare un cambio di scena – che non avverrà.

La direzione di Carlo Rizzi è piana e corretta, e ben risponde l’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, in tutte le sue sezioni, così come il Coro Ventidio Basso, i cui componenti, diretti da Giovanni Farina hanno riempito il palco con disinvoltura scenica e competenza, meritando tutti i più convinti applausi e dimostrando che a diciannove anni Rossini era già un bel po’ Rossini.

L’equivoco stravagante
Direttore CARLO RIZZI
Regia MOSHE LEISER E PATRICE CAURIER
Scene CHRISTIAN FENOUILLAT
Costumi AGOSTINO CAVALCA
Luci CHRISTOPHE FOREY

Interpreti
Ernestina TERESA IERVOLINO
Gamberotto PAOLO BORDOGNA
Buralicchio DAVIDE LUCIANO
Ermanno PAVEL KOLGATIN
Rosalia CLAUDIA MUSCHIO
Frontino MANUEL AMATI
CORO DEL TEATRO VENTIDIO BASSO
Maestro del Coro GIOVANNI FARINA
ORCHESTRA SINFONICA NAZIONALE DELLA RAI

Nuova produzione
Edizione critica della Fondazione Rossini
In collaborazione con Casa Ricordi
a cura di Marco Beghelli e Stefano Piana

Durata: 2h 30’ con un intervallo
Applausi del pubblico: 5’

Visto a Pesaro, Vitrifrigo Arena, il 19 agosto 2019

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