Essere incazzati? E’ di una comodità disarmante. Dante Antonelli oltre la merda di Schwab

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Stesso bar
Stesso bar, stesso tavolino, due anni dopo di nuovo con Dante Antonelli (photo: Giacomo d'Alelio)
Stesso bar, stesso tavolino, due anni dopo di nuovo con Dante Antonelli (photo: Giacomo d’Alelio)

“FÄK significa merda; FIK FIKEN vuol dire scopare duro, con rabbia; FEK è una nostra invenzione, che è tra una scopata e una cagata. Werner Schwab affonda nello sporco della società per poterne parlare, anche se ‘Le Presidentesse’ era molto più di questo…”.

E il pubblico in qualche modo sembra averlo percepito, tanto che “Arianna ad agosto ha sentito dalla prima fila una coppia: lui diceva che il lavoro gli stava piacendo, ma non riusciva bene a capirlo. E lei gli ha risposto: lascia perdere, non è mica una fiction, è un’opera d’arte…”.
Lo ha captato ad Ostia con evidente orgoglio Arianna Pozzoli, una delle attrici del collettivo diretto da Dante Antonelli, durante la replica estiva di “FÄK FEK FIK – le tre giovani”, arrivata dopo la vittoria al Roma Fringe Festival. Per chi se lo fosse perso tornerà (sempre a Roma) a novembre, dal 27 al 29, alle Carrozzerie_not.

“Se mi uccido nel giorno di una festa nazionale, il mio Paese è talmente stupido da pensare che è un caso…”: così diceva nell’ultima, premonitrice, intervista, prima della sua tragica scomparsa per eccesso di alcol la notte di capodanno 1994, il regista e drammaturgo austriaco Werner Schwab.

Dante Antonelli ha deciso di farlo rivivere sul palco, dando voce alle tre opere che ha lasciato dietro di sé, contenute nei “Drammi Fecali”: “Le Presidentesse”, “Sovrappeso, insignificante: informe” e “Sterminio” (di quest’ultima leggi anche la recensione all’allestimento curato dal Teatro delle Albe).
Lo sta facendo ormai da un anno e mezzo con il laboratorio Schlab, di cui “FÄK FEK FIK” è il primo capitolo.

È in cantiere il secondo, da “Sovrappeso”, di cui il 12 e 13 settembre si sono visti i primi passi proprio alle Carrozzerie_not, in quell’opera che si chiama “DU ET”: “Il debutto è previsto a fine gennaio. Stiamo cercando di capire con chi portare fino in fondo il lavoro…”.

Ci ha parlato a lungo del suo progetto, Dante Antonelli, in un pomeriggio svogliato. Sotto le logge della piazza dei Cinquecento, accanto a Termini, l’ho ritrovato due anni dopo la nostra prima conversazione. Allo stesso tavolino dello stesso bar.

Perché con “FÄK FEK FIK”, Antonelli e le sue tre sorprendenti attrici, Martina Badiluzzi, Giovanna Cammisa e Arianna Pozzoli, in quella posizione frontale e disarmante, in quel vomitare se stesse e con loro noi, mettendosi/ci più che a nudo, danno voce all’accusa di codardia con cui Schwab ammoniva la società all’inizio della sua opera: “Il linguaggio e le presidentesse che lo espongono sono una cosa sola. Esporre (spiegare) se stessi è un lavoro, quindi incontra resistenza. La rappresentazione dovrebbe evidenziare questo sforzo.”

Torniamo indietro, a due anni fa. Ti alzi da questo tavolo e cosa succede?

Solo “FÄK FEK FIK”: era un primo amore, quello per Schwab. Ho finito il mio percorso accademico. “La Cocciutaggine” si è fermata: gli elementi del suo gruppo si sono tutti mossi in direzioni diverse. Ho aperto lo Schlab, tutt’altro rispetto al percorso fin lì compiuto, tant’è che da un certo ambiente non è venuto proprio nessuno, e forse questa è stata la sua vera risorsa… È’ diventato un luogo d’incontro e scambio con altri artisti, attori, autori, che continua a vedere avvicinarsi persone nuove e tornare persone già conosciute.

Si è creato quel gruppo di lavoro, quella “famiglia”, di cui manifestavi l’esigenza?
Lo Schlab è stata l’occasione per trovare un nostro modo di fare. C’è molto sentimento e passione tra le persone che ci stanno lavorando; ci son momenti che ci uniscono anche al di fuori, ma per questo è sempre più importante distinguere ciò che è legato al lavoro, e ciò che non lo è.
Non so se sia la famiglia quello che può raccontare questo gruppo; è più ricco di una famiglia, che, restando in Italia, senza paura di offendere qualcuno, troppo spesso significa clan, mafia, piccolo protettorato borghese.
C’è un concetto che mi piace molto: la festa. Quando ci ritroviamo insieme è per noi una festa. Nessuno sforzo o sacrificio. Non è un obbligo, un dovere.

Un momento di prove di DU ET (photo: Giorgio Termini)
Un momento di prove di DU ET (photo: Giorgio Termini)

Dunque una festa, e non un gioco al massacro come quello di “Sterminio”…
… che è l’ultimo lavoro dei Drammi fecali… Ora stiamo cercando due persone capaci di incarnarne nove. Una coppia con cui raccontare tutte le coppie che si trovano in “Sovrappeso”. Un lavoro sulla possibilità dei molteplici stati dell’essere due: potrebbero essere due uomini, due donne, due cani, due gatti, due transessuali, transgender, qualsiasi cosa.

“DU ET”…
Dove le due lettere centrali stanno per UE, Unione Europea; il sottotitolo di “Sovrappeso” è proprio “una cena europea”, raccontata in una stamberga/tavola calda/birreria austriaca di quart’ordine, che è spunto per una storia post-apocalittica, con le ceneri dell’Europa che già negli anni Novanta Schwab vedeva come un cumulo di cadaveri. Lo fa dire alla padrona, che ha un sedicente amante filosofo: “L’Europa è una discarica di cadaveri. Facciamo un’enorme vacanza, un tour europeo sopra di essi”. E basta vedere cosa sta succedendo ora con la Grecia, con gli immigrati… “DU ET” sarà molto sul cibo, sull’alcol.
Il terzo lavoro, da “Sterminio”, galleggerà nella merda.

Continuiamo a farci del male?
Quando parli di disoccupazione, di disperazione, di gioventù senza speranza, la domanda è sempre la stessa…

Qual è la luce, la sua verità?
Sarebbe molto arrogante da parte mia definirne una sola. Credo che il lavoro porti dentro di sé una luce, penso che chi guarda FFF non ne esca con la sensazione che debba solo sbattere la testa contro il muro. La reazione non deve essere un atto eroico che riguardi singoli momenti, che non avverranno mai se non nelle fiction che trasmette la Rai. Deve essere un’azione quotidiana, che è la cosa più difficile, il sorridere ogni giorno, trovarne un motivo, perché essere incazzati è di una comodità disarmante. È un inno alla mediocrità.
In questo viaggio in compagnia di Schwab stiamo compiendo un’azione psicomagica… Noi, che ne affrontiamo i temi, lo stiamo facendo per non precipitare. Così come tutto il dramma del lavoro che si porta dietro FFF: le sue protagoniste sono delle iper-occupate e malpagate. Noi non siamo la generazione dei disoccupati, è una grande balla quella che ci raccontano, è uno di quei dati simil-ministeriali come quello sugli Under35, che non vuol dir niente.

Quanto di vero e autobiografico si può trovare in FFF?

Abbiamo cercato di lavorare sulla veridicità di quello che raccontavamo e non sulla verità, che è un concetto molto retorico. Noi ci siamo dentro totalmente: i nostri pensieri, sensazioni, anche i nostri giudizi sul mondo che vediamo, maturati in un processo collettivo. Ma questo non vuol dire che necessariamente le storie che raccontiamo siano biografiche: si è partiti da un dettaglio della vita di ognuno di noi, e si è poi sviluppato in una chiave verosimile.
L’opera prescinde da noi, non c’è un solo autore, ma tutti noi messi insieme, che, in prima fila, siamo pronti a prendere gli applausi o le frecce del pubblico. Tutti sono stati parte integrante dello spettacolo, anche Nina Ferrarese, la ragazza che ha fatto i costumi in scena, ha detto la sua. Francesco Tasselli, il ragazzo che fa le luci e le riprese, ha partecipato allo stesso modo. Come Samuele Cestola, che ha composto la musica durante le prove.

La critica “che conta” ha visto FFF?

Non sono uno che ce l’ha a morte con la critica, anzi, penso che il dialogo possa essere stimolante, almeno con un certo di tipo. Sopporto poco quelli che vogliono fare tutto: critici, artisti, fotografi…
Penso che i critici abbiano talmente tante richieste che non possono vedere tutto. Non l’hanno visto? Hanno perso un’occasione. Comunque FFF sarà a novembre a Carrozzerie_not. Li vuoi far venire tu?

C’è un momento in cui le protagoniste rimangono totalmente a nudo. Che tipo di reazioni ci sono state?

Nessuna richiesta di censura. L’unica reazione degna di nota è stata quella di un giornalista che ci ha chiesto, durante il Fringe, “Perché si spogliano?”. Gli ho chiesto di domandarmi “perché si rivestono”? Non c’è nessun desiderio di provocare, di sedurre. Accade e basta. Quel momento lo chiamiamo i discorsi politici: è il momento in cui le Presidentesse originali hanno deliri da capi di governo e nella versione delle tre giovani diventano tre candidate, che devono fare il loro spot elettorale. Una sola cosa ci sembrava giusta fare: togliersi tutto e dirlo. Perché, anche se nude, erano più vestite che con qualcosa addosso.
È un lavoro che parla dell’universo femminile: e come non affrontarlo parlando della realtà di oggi, in un’Europa in cui i diritti delle donne dovrebbero essere in primo piano, e invece…

Al Tivoli Estate era tutto gratis… Davvero non ci sono i soldi per la cultura, o solo per quello che è deciso dall’alto?
Non abbiamo avuto nessun sostegno della Regione Lazio né dal Comune di Roma, ma neanche siamo andati a chiederli; nulla toglie che non siamo aperti a riceverli…
Sono sempre più convinto che la prospettiva del pubblico, del finanziato a tutti i costi, non sia l’unica percorribile.
Per FFF abbiamo mandato una mail al Forum Austriaco di Cultura, e tutto è nato sorprendentemente da lì. Vediamo cosa ci aspetterà per il futuro, anche per mantenere quel sistema virtuoso che stiamo cercando di attuare, per cui tutti quelli che lavorano per noi possano continuare ad essere pagati.

Come si sopravvive a Roma?
Credo che ci siano tantissime persone che stanno lavorando, anche in modo interessante. È comunque un dato di fatto che quando ci si sposta dalla capitale è più facile trovare delle reti che funzionano e che rendono più visibili un numero maggiore di artisti.
Se fai un salto in Emilia Romagna o a Milano te ne accorgi… A Roma ci sono talenti grandissimi che ce la fanno nonostante siano a Roma. I loro lavori sono il frutto di una lotta ancor più dura col sistema, e per questo sono ancora più validi. E ci sono altri che mollano.
Il modello francese sembra essere il migliore, e vedere nei teatri (pieni) spettatori di 16-18-20 anni è per noi sorprendente. Ma il suo assistenzialismo può essere un’arma a doppio taglio…

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  1. says: Jean Luc di Paola

    Parole che dovrebbero far riflettere chi ama la cultura , l espressione teatrale ed il futuro della fattibilità in Italia.
    Dante Antonelli lotta e si batte coraggiosamente contro una situazione ormai risaputa: quando mancano i soldi per molto, mancano ancora di piu’ per un teatro per riflettere, nel quale i riflettori rimuovono le viscere dei nostri problemi conteporanei. É un inno al crowdfunding anch per lonspettacolo di qualità . L 8/1000 perchè non pensare di darlo a questi gruppi che sia pudicamente che finanziariamente non osano chiamarsi compagnie teatrali perchè di mezzi ancora non ne hanno. Ma ricordiamo forse che il teatro combina la nobiltà tragica della mitologia, della filosofia e della politica antiche ma anche la precarietà senza stabile. É forse proprio questa ultra-precarietà che rafforza la virtu’ la più sfacciatamente pura del lavoro di Dante e dei suoi seguaci. Da riflettere… Semplice commento da spettatore sveglio et come si dice in francese ” empêcheur de tourner en rond” .