Estate a est: dal Teatro Biblioteca Quarticciolo tre passi Sempre più fuori

Archeologie future (ph: Piero Tauro)
Archeologie future (ph: Piero Tauro)

Dalle “Archeologie future” di Frosini e Timpano ad “Abitare il ritorno” di Fabiana Iacozzilli, viaggio teatrale nell’estate romana 

“Nelle case non c’è niente di buono
[…] Bisogna ritornare nella strada
Nella strada per conoscere chi siamo.”

“State a casa”, invitava cubitale la maggior parte dei quotidiani all’indomani del DPCM del 9 Marzo 2020. Da allora lo stare dentro e lo stare fuori sono diventati improvvisamente atti sanitari, poi civici, poi politici. A meno di voler aprire una nuova vena di complottismo, non ci sono contatti diretti con il concetto dell’uscire di Gaber. Però non è un caso se, dopo il Fuori Programma Festival curato da Valentina Marini, la coda della programmazione del Teatro Quarticciolo di Roma giochi sull’ambiguità tra un fuori-dagli-schemi, dai generi di programmazione, e un fuori-fisico, sia fuori dagli accaldati spazi teatrali che fuori dalle case: è infatti “Sempre più fuori” il benaugurante titolo della rassegna che fra teatro, danza e performance arriverà fino all’autunno, con una pausa agostana.

Ma partiamo dalla casa-base del Teatro Biblioteca Quarticciolo.
Le “Archeologie Future” di Elvira FrosiniDaniele Timpano e Lorenzo Danesin presentate a fine luglio cominciavano a nascere fin dal periodo ormai storicizzato come “primo lockdown“, dichiarando già nel titolo una possibilità di lettura. Potrebbero infatti essere la risposta alla domanda su quali reperti si mostrerebbero a un ipotetico archeologo di domani se si trovasse a disseppellire testi-spettacolo del duo.
Il percorso, un’installazione site-specific già proposta un anno fa al PimOff e poi a Salerno Letteratura, è stato qui riadattato per gli spazi del Quarticciolo, costituendosi in questo caso come un percorso obbligato, guidato dai due performer (Danesin ne ha elaborato la drammaturgia sonora, Omar Scala e Luca Telleschi le luci, Marta Montevecchi le scene) attraverso materiali ora “di recupero”, ora collaterali, ora composti attorno o a partire dai testi, ora estratti dal corpo dei cinque lavori, che sono “Acqua di Colonia“, “Zombitudine“, “Ecce Robot”, “Dux in scatola” e “Ottantanove“.

Si parte dal foyer del teatro, ci si addentra nei corridoi che portano ai camerini, si sfocia in platea e infine ci si “spiaggia”, molto accaldati, sulle poltrone della platea, per la sezione più lunga delle “Archeologie”, quella tratta da “Ottantanove”, in cui si può udire, insieme a quella dei due performer, anche la voce di Marco Cavalcoli.
Gli spazi sono delineati con luci e oggetti scenici, da una maschera di Mazinga per “Ecce Robot” a un enorme tricolore che pende dalla galleria per “Ottantanove”, da un casco sahariano alla statuetta di una fertilità/venere ottentotta.

Questa modalità, sottolineano gli autori, è solo una possibilità, lo statuto felicemente ambiguo del lavoro infatti non si misura solo sul piano del contenuto (ne gode appieno chi ha fresca in mente la memoria dei lavori di origine, ma non lascia scontento anche chi li ignorasse) ma anche su quello dell’esposizione dei materiali, della fruizione, come altri hanno già sottolineato.
A partire dalla individuazione di un motore reazionario che lavora alla base della nostra storia (e storiografia), passando per le ancora poco digerite questioni coloniali e postcoloniali, per il fascismo, la nascita della tv commerciale e la costruzione generazionale di una sottocultura comune alle generazioni nate tra i ’70 e gli ’80, per finire con un “io sono Giorgia” ben aleggiante sul nostro presente, questi “oggetti” teatral-installativi sono insomma un manuale timpano-frosinesco della nostra storia nazionale, e restituiscono un estratto dell’infaticabile lavoro del duo sulla riscrittura laterale, problematica, di un passato nazionale generalmente vissuto con un’autocoscienza parziale, spesso di comodo o poveramente scolastica.

Uscendo dal teatro, a pochi passi si incontrano due spazi diversi: il piccolo parco Modesto di Veglia, dedicato al partigiano da poco scomparso e, più a est ancora, il Parco di Tor Tre Teste, dove spesso sconfina la programmazione non solo del Quarticciolo ma anche del Fuori Programma Festival, che abbiamo in parte seguito. Ma tornando appena qualche chilometro verso il centro, tagliando con una diagonale immaginaria il quartiere di Centocelle, si arriva al Parco di Villa de Santis, uno spazio progressivamente liberato, negli ultimi 25 anni, da sfasciacarrozze e altre attività abusive, ora irrinunciabile polmone del quadrante a cui sono confine la via Casilina e il quartiere Casilino 23, ideato da Ludovico Quaroni.

Qui si è data la vivace restituzione di “I funamboli”, laboratorio costruito nell’interazione tra l’associazione e scuola di lingua italiana Asinitas e la non-scuola del Teatro delle Albe, in uscita romana nella persona di Alessandro Argnani.
Otto giorni di lavoro con ragazzi e adolescenti del multietnico Municipio V, sia italiani che immigrati di seconda o prima generazione, addirittura provenienti da case d’accoglienza, con livelli linguistici a volte appena iniziali.

In quegli stessi spazi, pochi giorni prima aveva bruciato di un fuoco rapido “Il bagno” di Tiziana Tomasulo (tratto da “Da soli non si è cattivi”), omonimo del testo majakovskiano, estratto da un trittico di atti unici, in scena per la prima volta nel 2017 al Teatro Vascello – si tratta del terzo dei tre, probabilmente collocato in una posizione di culmine.
Sembra una vita fa, rispetto alla Fabiana Iacozzilli di “La classe” e di “Una cosa enorme“, e il breve testo, nemmeno una mezz’ora, è un brillante aforisma sullo stare insieme come bisogno, come disperata lotta con sé stessi, una lotta dichiarata in scena senza la consueta autocensura, un dialogo così assurdo da ritrovarsi ad essere ricalco iperrealista. Ma pure al suo interno “Il bagno” sperimenta diverse qualità e meccanismi di scrittura comica, ben accompagnati nella regia e nell’interpretazione di Francesca Farcomeni e Francesco Zecca.

Questo incontro duplice con la restituzione di un laboratorio per stranieri e con la mano di Fabiana Iacozzilli deve concederci un extra oltre gli spazi del V Municipio di Roma, ancora un po’ più fuori, anche se poi si rientra. E si rientra nel Nuovo Teatro Ateneo per il primo Festival Teatro delle Migrazioni.
Qui, dopo aver vinto il primo posto del bando a esso collegato, torna in scena l’esito “Abitare il ritorno”, già in scena lo scorso anno all’India e a Santarcangelo, con i suoi tredici performer non professionisti, anch’essi provenienti da un laboratorio di cinque mesi del progetto Incroci (Teatro Magro, Progetto Amunì, Asinitas, che produce con Alta Male Italia, anno 2021). “Esito”, si è detto, ma la qualità del lavoro, che, questo sì, contiene tanti segnali riconoscibili, maturi del linguaggio della Iacozzilli di oggi, ha la dignità di uno spettacolo.
Se il linguaggio è composito (interviste audio, teatro di figura, teatro di narrazione), il risultato è ancora una volta baciato dalla riuscita artistica, grazie a un perno centrale così ben piantato da permettere a tutta la macchina spettacolare di girargli attorno. A partire dalle ricostruzioni in cartone, esposte su un enorme tavolo rotante, si lavora poi con pupazzi in carta accartocciata manovrati dai performer (ispirati a quelli di Gyre & Gimble), fino a precipitare nella stentorea allegoria finale: dalla durezza del legno di un albero che nasce innocente, abbattuto, trasportato, segato, stritolato, impastato, esce la carta che, ora sì, estratta dal suo quieto nido, esige di esser scritta, di parlare.
Così, oltre che metafora di chi suo malgrado si ritrova a riversarsi nel nostro occidente, l’immagine riesce a richiamare insieme tutta la carta che su quel palco si aggira e si consuma, tutta la carta che deve essere passata tra le mani degli interpreti, allievi di corsi di italiano per stranieri, per il loro studio della lingua: esercizi, letture, scritture, tratti di matita che provano a disegnare la loro nuova lingua, la loro nuova casa.

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