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Esto es así y a mi no me jodáis. Rodrigo García declina verso la malinconia

Esto es así y a mi no me jodáis (photo: contemporaneafestival.it)
Esto es así y a mi no me jodáis (photo: contemporaneafestival.it)

Per parlare dell’interessante lavoro che Rodrigo García ha presentato in prima nazionale a Prato parto dalla fine, come in un meccanismo al contrario.
Dopo aver assistito a “Esto es así y a mi no me jodáis”, in chiusura del Contemporanea Festival, ci spostiamo al Fabbrichino (spazio limitrofo al Fabbricone che trova nel nome un’appropriata descrizione), per assistere all’incontro col regista, coordinato da Gianfranco Capitta. Il critico de Il Manifesto sottolinea il suo stupore per un lavoro che, pur conservando i segni distintivi del teatro del regista argentino formatosi a Madrid, presenta una dimensione diversa, più filosofica e poetica. Le risposte di Rodrigo García testimoniano un preciso modo di lavorare con gli attori e una volontà netta, nel processo creativo di gruppo, di scoprire cose nuove, poiché il pericolo in cui si può incorrere facendo un qualsiasi lavoro è quello di stancarsi, annoiarsi, e questo va evitato.

Diversamente rispetto agli spettacoli precedenti, García ha lavorato stavolta su un testo già scritto, inizialmente un monologo per un attore cieco, divenuto poi parte integrante di qualcosa di più complesso, nell’esigenza di rappresentare anche un universo sonoro.

“Esto es así y a mi no me jodáis” è uno spettacolo articolato prevalentemente su due concetti che tracciano una struttura di base: parola e suono, mentre a pervadere tutto è un’aura di malinconia. Le prime due parole chiave risaltano nell’immediato, dopo pochi minuti dall’inizio; la terza emerge lentamente per poi affermarsi nell’ultima scena.
Ci troviamo di fronte a uno di quegli spettacoli che colpiscono alla distanza, arrivando nell’intimo, fatti di immagini e parole prepotenti, che aprono squarci poetici forti e delicati, al contempo lenti e velocissimi, trasportandoci fuori da una comprensione immediata ma, non per questo, priva di efficacia.
La scena che ci accoglie è imponente, occupata da un numero imprecisato di piatti (musicali) di varie forme e dimensioni, che risplendono come fiori metallici e invadono lo spazio, creando un’immagine evocativa e di grande effetto. Due attori – un ragazzo, che scopriremo essere non vedente, e una ragazza – stanno seduti su una “chaise longue” che poggia su una fittissima pila di libri. Sullo sfondo, ai piedi di un’enorme telo bianco, che si rivelerà essere uno schermo su cui proiettare immagini in presa diretta, stanno una batteria e la sagoma di una figura umana fatta di erba da giardino sintetica, che nella forma richiama una classica pelle d’orso da salotto.
Poi i due cominciano a baciarsi, respirando e ansimando amplificati dai microfoni ad archetto.

Risulterebbe eccessivo fare una lista degli eventi che accadono in scena, in un susseguirsi di suoni, immagini e parole. Cito soltanto il monologo dell’attore cieco (in francese con sopratitoli), che indaga i limiti del linguaggio e dei mezzi di comunicazione della contemporaneità, e la distanza che essi creano tra gli uomini, la condizione dell’essere ciechi, con i limiti e i vantaggi che comporta, per poi terminare con una lunga digressione sull’affresco di Masaccio “La cacciata dei progenitori dall’Eden” (Cappella Brancacci, Santa Maria del Carmine, Firenze). Quest’ultima è introdotta dal video di una scolaresca in un ambiente urbano intenta ad attraversare la strada sotto l’occhio vigile delle maestre, dove tutti i bambini indossano sul viso, a mo’ di maschera, il particolare dei volti di Adamo ed Eva nell’affresco sopra citato. Il video è seguito da una lunga riflessione dell’attore sul concetto di Paradiso. Garcia spiegherà poi che il suo interesse è quello di fornire dell’Eden una visione differente, un punto di vista insolito, ossia la messa in dubbio del fatto che si tratti di un luogo meraviglioso.
Ma il regista non dimentica anche i propri stilemi usuali: il cibo – già nei primi minuti un pezzo di stracchino diviene alcova di due amanti, stilizzati dalle dita dell’attrice – o una ripresa in soggettiva (amplificata in tutto il suo orrore dall’enorme sfondo bianco) di granchi costretti in una bacinella (e qui il pensiero subito corre a “Accidens-Matar para comer”), chiaro e diretto rimando alla condizione dei due progenitori dopo la cacciata, dirà Garcia durante l’incontro.
Eppure è un Rodrigo García diverso, più poetico e malinconico, come emerge chiaramente nel finale. Un’attrice nuda si sdraia su un mucchio di sabbia appena gettato in scena, mentre un attore versa del liquido blu schiumoso davanti a lei. In sottofondo il rumore di onde marine. La telecamera fissa la scena, quasi a rappresentare l’occhio del regista.

Forse non tutti si aspettavano un lavoro così malinconico, e c’è chi rimane perplesso. Io parlo invece di uno spettacolo che, tolti alcuni passaggi in cui il ritmo e la cadenza perdono di forza, convince e ci immerge con dolcezza in atmosfere spesso carnali e viscerali senza essere provocatorio o eccessivo. Il testo, interessante e denso, rappresenta il vero punto di forza della messinscena. La struttura dimostra un lavoro accurato e approfondito, studiato nei minimi dettagli. Gli attori, concentrati e convincenti, creano un forte legame con gli spettatori. Tanto da farmi pensare di aver assistito ad uno dei lavori più interessanti di questa stagione.

ESTO ES ASÍ Y A MI NO ME JODÁIS
testo, direzione, scenografia: Rodrigo García
traduzione: Christilla Vasserot
co-produzione: La Carnicería Teatro, Bonlieu Scène Nationale d’Annecy
interpreti: Melchior Derouet, Nuria Lloansi
disegno luci: Carlos Marqueríe
video: Ramón Diago
assistente alla direzione: John Romão
direzione tecnica: Ferdy Esparza
tecnico di scena: Jean-Yves Papalia
tecnico del suono: Joel Silvestre
durata: 1h 19′
applausi del pubblico: 2′ 41”

Visto a Prato, Teatro Fabbricone, il 1° giugno 2010
Contemporanea Festival 2010

 

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