Con il regista Andrea Adriatico l’originario monologo di Jo Clifford diventa un coro di identità e fluidità
C’era una volta… La storia più antica del mondo, quella che tutti conosciamo: la Genesi, ossia la creazione di Adamo ed Eva e la loro disobbedienza.
Il testo presentato a Bologna da Teatri di Vita è una rivisitazione di “The gospel according to Jesus, queen of Heaven. God’s New Frock” scritto nel 2009 dalla drammaturga transessuale inglese Jo Clifford e tradotto per l’occasione da Stefano Casi.
Gender fluid, sex workers, omofobia, gender queen, sessismo, femminismo, strumentalizzazione della religione, oblio storico, oppressione, discriminazione: sono tanti i temi toccati in questo spettacolo attraverso l’antica parabola della creazione dell’uomo.
La versione del regista Andrea Adriatico, che torna a confrontarsi con i temi LGBTQ+, trasforma il monologo originale (in cui Gesù torna sulla terra reincarnato in un trans) in un coro di tante Evɘ. Questa giocosa narrazione a più voci sollecita lo spettatore a superare la concezione che c’è stata insegnata del maschio e della femmina come due generi separati e ben distinti, a favore di una interpretazione in cui il binomio maschio-femmina includa anche tutti coloro che si trovano nel mezzo, o che possiedono un po’ di uno e un po’ dell’altra. Emerge quindi una forte rivendicazione della pluralità di genere, quella stessa pluralità di cui sarebbe fatto Dio (come indica la parola femminile, plurale: Elohim, ossia Dio in ebraico).
Ad interpretare questo racconto, che è la storia di noi tutti, perché ci definisce nella nostra identità, troviamo l’icona del transgenderismo italiano Eva Robin’s (che con Teatri di Vita collabora ormai da molti anni), affiancata da Patrizia Bernardi (altra attrice storica e cofondatrice della realtà bolognese), insieme alla performer-regista statunitense Rose Freeman, al danzatore Met Decay, all’attore palestinese Anas Arqawi e a Saverio Peschechera, organizzatore e direttore di produzione che già in passato è stato diretto da Adriatico in qualità di attore.
Gli interpreti instaurano, sin da subito, un dialogo diretto con il pubblico; si presentano uno alla volta, si raccontano, invitano gli spettatori a chiudere gli occhi, a rivivere il ricordo di quell’istante doloroso in cui sono nati. Li guidano nella contemplazione della creazione del mondo, secondo la versione dell’Antico Testamento. Un libro la cui finzione pretende di essere vera.
L’intera operazione drammaturgica di Adriatico ruota proprio intorno al concetto di finzione, velando di ambiguità i racconti, le testimonianze e i momenti di rivelazione. Il pubblico si lascia coinvolgere empaticamente da una narrazione che non sa distinguere: dove finisce la finzione del testo, dove inizia la verità degli attori?
La messa in scena di Adriatico, che aveva debuttato al Teatro Kismet di Bari a novembre, è semplice e schietta. Il palco è vuoto ad eccezione di un drappo dorato che lo decora sulla destra. Una proiezione dalle tinte brillanti colora lo sfondo con un’immagine, la stessa della locandina: una mano maschile, con smalto rosso e peli sul braccio, che afferra una mela dal picciolo.
Quando il pubblico fa il suo ingresso in sala, gli attori sono già presenti in scena, vestiti da chierichetti, con delle lunghe vesti bianche che ne nascondono i corpi. L’unica cosa che li distingue, oltre a mani e volto, sono le scarpe che indossano: tacchi, zeppe, sneakers…
Gli stili recitativi dei singoli interpreti, ciascuno con percorsi ed esperienze diverse all’interno del mondo dello spettacolo, emergono con forza senza tuttavia amalgamarsi. Declamano il testo dandosi il turno, bloccati come statue all’interno di grandi tubi trasparenti, una sorta di gabbia che li imprigiona e ce li mostra. Tuttavia questi elementi scenografici, estremamente interessanti, rimangono pressoché inesplorati, così come le possibilità di movimento dei corpi al loro interno. Gli attori rimangono nei cilindri per tutta la durata dello spettacolo; alle volte li toccano mentre gesticolano o li muovono per cambiare posizione.
In primo piano nello spettacolo c’è la parola, che trova una maggiore enfasi nell’interpretazione di Rose Freeman, intensa ed ironica. L’attrice statunitense sa prendersi il tempo necessario per dare davvero vita al testo, e per fare viaggiare il pubblico insieme a lei.
E sebbene molti spettatori, o quantomeno una parte, debbano ricorrere ai sovra titoli per comprendere appieno le parti in inglese, è proprio in questi passaggi che il testo si esprime in tutta la sua potenzialità, esaltandosi nella fluidità dell’inglese e facendone emergere appieno poesia, ritmo ed intensità.
evǝ
di Jo Clifford
traduzione di Stefano Casi
riflessǝ in Andrea Adriatico
con Eva Robin’s, Patrizia Bernardi, Julie J
e Anas Arqawi, Met Decay, Saverio Peschechera
scene e costumi di Andrea Barberini e Giovanni Santecchia
immagine e grafica di Filippo Partesotti
cura di Antonio Berardone, Mila Di Giorgio, Laura Rodio, Alessandra Sulmicelli
tecnica Mirko Bergami, Fabio Cappa, Lorenzo Fedi
produzione Teatri di Vita
con il sostegno di Comune di Bologna, Regione Emilia-Romagna, Ministero della Cultura
in accordo con Arcadia & Ricono ltd
per gentile concessione di Alan Brodie representation limited
Visto a Bologna, Teatri di Vita, il 18 febbraio 2022