Tra buio e luce, suono e colore, memoria e immagine. La seconda parte di Danae Festival a Milano esplora il rapporto con l’onirico, scava nei ricordi, collega i sensi e le emozioni al fluire del tempo.
C’era attesa per il ritorno in scena di Filippo Michelangelo Ceredi, lanciato tre anni fa proprio dalla rassegna del Teatro delle Moire diretta da Alessandra De Santis e Attilio Nicoli Cristiani. Dopo “Between Me and P.”, il nuovo lavoro “Eve#1” abbraccia eventi cruciali degli anni 2001-2019. Richiede a monte la collaborazione degli spettatori, chiamati a spulciare immagini rappresentative del nuovo millennio. L’obiettivo è costruire un archivio sulla memoria visuale.
Quella dal Novecento in poi è una storia per immagini. Ceredi invita a mettere offline i dispositivi elettronici per illuminare i ricordi. Solo in un secondo momento si possono rintracciare in rete le immagini pensate, e magari corredarle di una riflessione scritta.
Dietro un velo di cellophane, Ceredi sale su una scala e realizza un’installazione di specchi come lame di ghigliottina. Penombra indistinta. Luce alabastro. Occhi senza vista. Una voce fuoricampo evoca momenti significativi di questo scorcio di secolo. Il tentativo è di assorbire il pubblico in una dimensione onirica, sul filo di una narrazione al buio. Caduto il sipario di cellophane, si staglia come la sagoma scura di un albero. Tra rami e frammenti vitrei, sfilano i fotogrammi di un’epoca: il fuoco delle Torri Gemelle, le torture di Abu Ghraib, l’isola di plastica dell’Oceano Pacifico, la foto cruenta di Carlo Giuliani. E poi il sorriso di Obama, i lazzi puerili di Berlusconi, il cappio di Saddam. E ancora, la morte di Aylan, il bimbo siriano di tre anni disteso bocconi sulla battigia, il volto nella sabbia, la fronte bagnata dal mare. Aylan, ovvero l’icona di tutti i naufragi, anche della coscienza.
Forse è vero che nella storia le sole pagine felici sono quelle bianche.
“Eve#1” è un lavoro da finalizzare e rifinire, fosse solo per garantire una visuale adeguata della performance a tutti gli spettatori, qui compromessa in parte dal gioco di specchi e riflessi. Ha tuttavia il merito di creare, nella pletora d’immagini, lo spazio per i soliloqui della mente. La parola scritta è meditazione. Il rumore della tastiera, nel buio, è un invito a riflettere che il chiasso di messaggi visivi quasi mai è informazione.
Suono e colore sono l’archetipo di “We want Miles in a silent way” di gruppo nanou.
Il Teatro Out Off è palcoscenico di una danza basata su architetture lineari. Si delinea un gioco spaziale di luci e forme, ombre e colori. Architettura, scultura, pittura, musica e danza si coagulano in forme complesse. Omaggiando il jazz di Miles Devis, i performer Carolina Amoretti, Marina Bertoni, Rhuena Bracci e Marco Maretti sono strumenti di un’unica orchestra, colori nella polifonia di suoni avviati da Roberto Rettura con le percussioni dal vivo di Bruno Dorella. Il lavoro si vale del contributo a progettazione, dispositivo scenico, luci e colori di Marco Valerio Amico, Daniele Torcellini e Fabio Sajiz e attraversa l’arte di Miles Davis. Ne esplora gli impulsi sperimentativi e innovativi. Ne setaccia l’anima delicata e magica. Lo spettacolo stempera la frenesia nel virtuosismo cromatico, che avvicenda blu cobalto, rosso melograno e scarlatto, viola, verde erba.
La sfida di gruppo nanou è di riprodurre la caleidoscopica arte di Davis raffigurandone il jazz, ma senza la tromba a dargli spessore. Il genio di Davis, in silenzio nella penombra, contempla le sue muse. I corpi sono reticoli di relazioni e incisi nello spazio. Le individualità si armonizzano nel totale.
In questo lavoro emerge la matrice Bauhaus della compagnia: l’apertura interdisciplinare, il continuo stimolo ad abolire la separazione tradizionale tra generi e materie artistiche. Nessuna rigidità, molta vitalità, qualche improvvisazione. Il concerto è vissuto dall’esterno e contemplato dall’interno. Fino al tripudio finale di gesto, colore e movimento, all’ingresso in scena della tromba di Davis.
La relazione tra corpo ed emozioni caratterizza “Chro no lo gi cal”, ideazione di Yiasmine Hugonnet, in scena all’Out Off con Ruth Childs e Audrey Gaisan-Doncel.
La danzatrice svizzera crea con Nadia Lauro e con le luci di Dominique Dardant una scenografia a gradoni che emula il digradare della platea, a stabilire un’ideale connessione con gli spettatori, risucchiati nel processo di trasformazione e declino della vita. Questa discesa simbolica si arricchisce di connotazioni inaspettate. “Chro no lo gi cal” è indagine delle interiorità più misteriose del corpo umano, nell’interazione con il tempo. Le performer, utilizzando la tecnica della ventriloquia, ci introducono nelle viscere del corpo a carpirne il suono, in un misto di poesia subliminale, rantolo e quel po’ di divertissement.
“Chro no lo gi cal” è deambulazione acustica, essenzialità della voce sganciata dal corpo, ilarità delle corde vocali emancipate da labbra e viso. Abiti rinascimentali e costumi elisabettiani stridono con la laconicità dei corpi nudi. Contempliamo la distopica bipolarità della natura umana, tra semplicità animale, velleità artistiche e slanci spirituali. Il gesto è scomposto nelle sue componenti di dinamismo, simultaneità, moltiplicazione dei punti di vista, incontri e scontri di forze.
Disorienta e incuriosisce questa coreografia in cui ci misuriamo con le potenzialità dell’inespresso. Le posture del corpo creano una danza fonetica animata da una sorta di logomachia in movimento.
Il fluire del tempo, le età e i colori della vita sono materia anche di “Porpora, rito sonoro per cielo e terra”, di Teatro Valdoca. Ma c’è un inequivocabile valore aggiunto in questo lavoro di Mariangela Gualtieri. Non solo la scenografia più curata da Cesare Ronconi: un blu notturno disseminato di luci sotto il clangore lucido di un disco metallico un po’ luna un po’ sole, un po’ bussola un po’ aureola, un po’ scudo greco da oplita. Tre piedistalli di varie dimensioni sono i luoghi di questa performance, dove la poesia è musica e naiveté fanciullesca, nell’altalena della vita. La poetessa entra in scena come una sibilla con un bimbo fantoccio sul capo, quasi una fiaccola di purezza e semplicità. Quel fantoccio diventa un infante da cullare. Lascia poi spazio ai simboli dell’età adulta, al loro istinto ferino e selvaggio.
Il valore aggiunto di “Porpora” sta soprattutto nell’accompagnamento al pianoforte dal vivo di Stefano Battaglia. Sono musiche composte ed eseguite ad hoc per questo lavoro, note centellinate, vibrazioni, percussioni di corde che inspessiscono i versi distillati dalla Gualtieri. L’impasto corposo di poesia, colore, suono e silenzio sedimenta un’instancabile sperimentazione e rimodulazione.
I versi sono acqua sorgiva. La terra parla in colori. La contemplazione è ascolto. Le note musicali defluiscono insieme alle parole, come terriccio trasportato da un ruscello.
“Porpora” è la voce cromatica dei sentimenti. È un rinnovato cantico delle creature. È il tentativo dì oggettivare il soggettivo. La musica dilata la poesia e le conferisce ritmo. Le impressioni suggerite dai colori, attraverso il coagulo di note e versi, si fanno meno vaghe e indefinite. Suggeriscono emozioni. Evocano stati d’animo: lo smarrimento e la ribellione, l’amore che agita, il dolore che percuote, l’abbaglio della vita, la gioia per ciò che inizia e svanisce, il grigiore di vite recluse e dimenticate. I colori danno sostanza ai simboli. Aiutano a sviscerare l’intima essenza delle cose.
Grande attesa per il finale del festival con la “Danza Butoh” di Masaki Iwana: «Tra i pochi danzatori – affermano De Santis e Nicoli Cristiani – ad essere rimasto fedele allo spirito originario di questa forma di danza, ad averne conservato la forza, la purezza sovversiva, perpetuandone l’anima profonda. Masaki Iwana va verso l’essenziale perché non dà alcuna concessione allo sguardo esteriore: ci porta ad abbandonare la nostra posizione di spettatore-consumatore e ci conduce in un aldilà della rappresentazione, nel suo paesaggio interiore». Appuntamento mercoledì 20 novembre alla Fondazione Mudima.