È un allestimento sontuoso l’“Evgenij Onegin” del regista lituano Rimas Tuminas, direttore del Vachtangov Theatre di Mosca, arrivato al Piccolo di Milano nell’ambito della rassegna “Le stagioni russe in Italia”. Non un rivoluzionamento scenico del romanzo in versi di Alexander Puškin, ma un focus sulla storia d’amore tra Evgenij e Tatiana, con prologo ed epilogo.
La storia si svolge nella memoria e nella fantasia dei personaggi di Puškin. Protagonista è l’irruente Onegin, che nel fiore degli anni sente il mondo ai suoi piedi. Bello, ricco, brillante, Onegin esercita un fascino energico sulle donne: a tutte cede, a tutte rinuncia, in un’ansia inesauribile di egotismo. Onegin è metafora della crisi di un’epoca, di una nobiltà evaporata tra mondanità e solipsismo. Egli rifiuta l’amore della provinciale Tatiana e s’incapriccia di Olga, promessa all’amico Lenskij. È una scelta dettata dalla noia. Un duello risolverà la contesa. Lenskij morirà. Qualche anno dopo Onegin incontrerà di nuovo Tatiana, ormai moglie di un generale e gran dama a Mosca. Stavolta toccherà alla donna respingerlo. Resterà per tutti un enorme rimpianto.
«La beatitudine era così vicina, così irraggiungibile», esclama Tatiana, oggetto scardinato del sentimento confuso di Onegin. L’epilogo è un accorato grido di rimorso.
La scenografia fumosa è un paesaggio con rovine di gusto settecentesco. Il fondale è un enorme specchio scuro deforme: restituisce il lato nascosto dei protagonisti, il riflesso cangiante dei ricordi. Recessi nebbiosi, angoli ombrosi e un’oscurità vertiginosa subiscono ogni tanto una zaffata di vita in forma di nevicata. La musica di Faustas Latenas è linguaggio elegiaco: ora inonda la platea di un’allegria folk, ora, inesorabile come il tempo, esprime la grandiosità della tradizione sinfonica russa, con echi tra Ciajkovskij e Shostakovich.
Ci sono panchine, sgabelli, letti che vagano per il palco. Piovono altalene. Anche noi oscilliamo tra la stanza di Onegin e una dacia di campagna. Entriamo nella tenuta dei Larin, luogo del primo incontro con Tatiana. Poi a Mosca, e ancora nella stanza di Onegin. L’ordine degli eventi cambia continuamente: dalle celebrazioni gremite alla contemplazione appartata ai ricordi solitari, tutti disegnati insieme dal passato, come i frammenti di una lettera d’amore di Tatiana, incorniciati e appesi al muro.
Le immagini nella memoria uniscono passato e presente, realtà e immaginazione. Sul palco ci sono due Onegin: quello maturo, che ricorda gli eventi un quarto di secolo dopo, e quello giovane, il secondo, che vi prende parte. C’è lo sfondo dall’epoca dorata della cultura russa, invecchiata come Onegin. Le sbornie del passato lasciano tristezza e capogiri, ecco perché i personaggi tendono a recitare come ubriaconi schivi e dirompenti.
“Evgenij Onegin” è un’enciclopedia della vita russa del XIX secolo. Vi ritroviamo quella malinconia esistenziale oggetto di riflessione per poeti e filosofi.
La trama principale è accompagnata da storie laterali: accanto ai protagonisti si staglia un coro di figure ottocentesche, gli abitanti della capitale, la campagna e persino la foresta. Come quel coniglio bianco che attraversa il sentiero di una carrozza scura, fantasma della mente o animale selvatico vero e proprio, comunque presagio di morte.
Tatiana è la vera protagonista: nobile, candida, naturale, qui è proposta come l’anima più autentica dell’identità russa. La scelta di impostare la storia al femminile porta anche alla ridondanza di attrici rispetto al numero relativamente esiguo di attori. Questo misterioso esercito di damigelle danzanti dalle lunghe trecce si traduce scenicamente in una serie di coreografie semplici e maestose, accompagnate dal suono dal vivo della lira e della balalaika, dalla fisarmonica e dal pianoforte. Più che le doti recitative, impressionano i movimenti, a metà tra balletto classico e tradizione circense. Compaiono figure anchilosate, come una donna piegata in due con una nuvola di capelli. Questi “scarabocchi” esistenziali sono postille a margine del testo: ricordano che anche i dettagli infimi hanno una loro vita ostinatamente indipendente.
Eppure colpisce l’unità di quest’opera imponente, il modo in cui ogni singola emozione governa e pervade la scena. La lingua originale, dura o sfumata, accompagnata dai sovratitoli, rende le sfumature del parlato e le alterna a silenzi eloquenti, quasi con l’icasticità dei film di Eisenstein.
Evgenij Onegin
selezione di capitoli dal romanzo in versi di Alexander Puškin
ideato, scritto e diretto da Rimas Tuminas
scene Adomas Jacovskis, musica Faustas Latenas, coreografia Angelica Cholina
con Sergey Makovetskij, AlekseyGuskov, LyudmilaMaksakova, Irina Kupčenko, Victor Dobronravov,
Evgeny Pilugin, Vladimir Simonov, Yury Šlykov, Aleksey Kuznetsov, Artur Ivanov, Eugenia Kregzde,
Olga Ierman, Maria Volkova, Oleg Makarov e altri
produzione Vachtangov State Academic Theatre
durata: 3 h 30’ con intervallo
applausi del pubblico: 6’
Visto a Milano, Piccolo Teatro Strehler, il 28 novembre 2018