Capita di imbattersi in spettacoli che sono come un repertorio immenso, spiegato come un catalogo di biblioteca, nel quale l’opera dello spettatore sembra esser quella di una decriptazione continua, concetto dopo concetto. Spettacoli in cui non si tratta di seguire uno sviluppo verticale dell’azione scenica, quale che sia, cioè che porti da date premesse a uno stadio successivo frutto dell’azione di nuovi fattori in campo, ma che vanno seguiti orizzontalmente.
Lo stesso Salvo Lombardo, nell’intervista condotta da Chiara Pirri che si può leggere sulla brochure di sala del suo “Excelsior”, in scena nell’ambito dei “dancing days” di Romaeuropa Festival, autodefinisce il lavoro come un’opera di trivellazione «di un giacimento culturale».
Ciò che lo spettatore è chiamato a osservare è perciò l’esposizione (orizzontale, appunto) del materiale cavato dal ventre della nostra Storia occidentale, e presentato sul palco non prima di averlo sottoposto a un trattamento come di corrente passante, che ne mette alla luce, alla maniera delle comiche slapstick, l’ossatura interna.
Ma si parla di noi: assistere ad “Excelsior”, co-produzione internazionale debuttata a Rovereto nell’ambito del Festival OrienteOccidente, è perciò un’esperienza che ha dell’autoanalisi. Il lavoro, in cui il coreografo non è in scena, diversamente dai maggiori lavori precedenti, è presentato su un palco sobriamente delimitato a mo’ di gabbia da sottili tubi led presso le quinte laterali, e da uno schermo simmetrico sul fondo, dalla forma di due trapezi in simulata prospettiva, che si scopriranno segmentati da ulteriori sottili strisce led.
Si dividono la scena sette danzatori (alcuni dei quali habitué della scena di Lombardo, come Lucia Cammalleri e Daria Greco), più altri sette in un ruolo subalterno, aggregatisi durante il workshop “Around Excelsior”, uno dei vari gradi che hanno condotto allo spettacolo finito.
Si parte con un’acida citazione dell’antico e originale “Gran Ballo Excelsior”, nato alla Scala nel 1881, spettacolo celebrativo delle conquiste della civiltà europea sulla barbarie del mondo incolto e selvaggio, qui affidata a frammenti della sua musica originale e alla presentazione dei suoi antichi intenti, affibbiati alla raggelante dizione di una voce elettronica.
Si passa poi attraverso una sferzante chiamata in causa della tradizione ballettistica ottocentesca, attraverso la parodia dell’estetizzante danza sulle punte (il čajkovskiano “Odile” in bianco/nero è stampato sulla maglietta di una danzatrice); si vira inevitabilmente alla critica dell’autoassunta missione civilizzatrice, appannaggio della bourgeoisie operosa e imperialista a cavallo tra i due (passati) secoli; si scende poi all’altezza dell’attualità (non manca l’accostamento tra le imprese degli odierni migranti del Mediterraneo e il trionfante beccheggio di uno yacht chilometrico), con il consolatorio cosmopolitismo per tutte le tasche della “generazione Erasmus” e con l’emersione inattesa, veramente disarmante, di alcuni fra i più triti cliché della contemporaneità, spinti a dichiararsi ciò che sono, senza reticenze: frutto di un’ideologia colonialista ormai tanto sedimentata che non solo si mimetizza (come i panni animalier e dai motivi vegetali che “impazzano” sul palco), ma assume i connotati coloristicamente edificanti di un orgoglio sentito come proprio, mentre non è altro che l’image eterodiretta a cui è stato incatenato.
E ancora, la lista dei disvelamenti e delle esibizioni del materiale tratto da quel deposito è lunghissima, e impone un gioco intellettuale, una caccia: dal conquistatore conquistato, sulla scia dell’oraziano Graecia capta, al ricordo del nazionalismo storico ottocentesco pulsante nel nostalgico Má vlast di Smetana, dell’idea di Nazione che ignora o finge di ignorare gli addentellati imperialistici; dalla costruzione di una piramide umana in scena, orgogliosa sfida della Educazione Fisica alle leggi dei corpi molli e pantofolai (magari per tornire animi e membra in vista della fondazione di un Impero!), alla raffigurazione ferina della sensualità esotica e selvaggia della Venere ottentotta, lucente come corpo di pantera, che ruggisce ma sembra che seduca; dai miti ecologisti più commerciali e pelosi, alla sottocultura pseudo-autoctona di ripiego, stile calcistico “verdeoro”, che fa rabbrividire.
Ogni goccia di questo prezioso giacimento è estratta a freddo, e si direbbe bombardata con la più spietata luce dell’analisi, con acribia degna di un etnoantropologo militante, ed è sempre certificata, a scanso di equivoci, dal ricorrente fine commerciale, che giustifica ogni abominio.
La costruzione che abbiamo definito orizzontale del lavoro e il suo orientamento magistralmente brechtiano (nessun sentimentalismo ha dimora in “Excelsior”, nessuna sorta di immedesimazione coll’umile o con lo sconfitto, mentre strumento principe dello spettatore torna a essere, tagliente, l’opinione circostanziata, e anche – perché no? – il giudizio) hanno però due rischi.
Il primo è che, al di là dell’appropriatezza degli elementi culturali chiamati in causa, essi si risolvano in un centone, che l’orizzontalità divenga piattezza. Il secondo è che la freddezza dell’esposizione, per quanto perfettamente distribuita nella drammaturgia (che infatti non soffre momenti di noia o stasi), risolva lo spettacolo in un lavoro scientifico. Quasi un compito ottimamente svolto – ma niente di più.
Il primo di questi rischi è scampato grazie alla padronanza che Lombardo ha degli strumenti del palco e della capacità di far interferire positivamente livelli diversi. L’orizzontalità della drammaturgia è infatti scossa internamente dalla qualità della gestione dello spazio e del movimento in scena, dall’affollamento minuzioso del palco, dalla irreprensibile conduzione di scene e controscene, gruppi e singoli, musiche e suoni (persino il silenzio), luci di scena e luci che sembrerebbero interne, come i led, video (repertorio scelto da Isabella Gaffè e filmato di Filippo Berta) con presenza di carne viva sul palco. Questi non sono puri abbellimenti, sono strumenti di quel mestiere che è appunto il teatro, e intervengono smuovendo l’orizzontalità, squassando la linea rettilinea e un po’ ingessata in una forma di vortice, mai quieto, sempre teso verso la platea, e dunque improvvisamente padrone di quella tridimensionalità che l’allegoria finale (un branco di lupi – o lupe, dantesche? – fanno a brani un tricolore in video, mentre dietro il velatino si ammassano corpi nudi) certifica senza indugio.
Ciò automaticamente scioglie il secondo rischio: “Excelsior” oltre che vero, è anche bello.
EXCELSIOR
Concept, Choreography, Direction Salvo Lombardo
Performance Jaskaran Anand, Cesare Benedetti, Lily Brieu, Lucia Cammalleri, Leonardo Diana, Fabritia D’Intino, Daria Greco
And with workshop Around Excelsior partecipants
Coreographic collaboration Daria Greco
Cultural advisor Viviana Gravano
Music Fabrizio Alviti
Light and video design Daniele Spanò e Luca Brinchi
Movie contribution Isabella Gaffè
Video Homo Homini Lupus Filippo Berta
Costumes Chiara Defant
Technical assistants Loris Giancola, Luca Giovagnoli, Gabriele Termine
Organization Sabrina Chiarelli
durata: 60’
applausi del pubblico: 2’ 30’’
Visto a Roma, Teatro Vascello, il 20 ottobre 2018